«Hanno sparato a Togliatti»: furono scene di guerra civile

La repressione fu durissima con rastrellamenti indiscriminati nelle case e nei boschi

FABIO DEMI

Quando il giornale radio delle 13 dette la drammatica notizia, l’Italia scivolò rapidamente verso la guerra civile. Intorno alle 11.30 il segretario generale del Partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, uscendo dalla Camera dei deputati, era stato affrontato dal giovane fanatico anticomunista Antonio Pallante che gli aveva sparato quattro colpi di pistola. Era il 14 luglio 1948, settanta anni fa. I primi dispacci annunciarono un Togliatti moribondo (in realtà le condizioni del leader del Pci erano meno gravi di quanto sembrasse in un primo momento), e il Paese piombò nel caos: fabbriche occupate, assalti alle caserme, poliziotti e carabinieri catturati, folle in piazza, armi che spuntavano come funghi, trasporti, uffici e stabilimenti bloccati dallo sciopero generale.

Morti, feriti e arresti. Per almeno due giorni, il 14 e il 15 luglio, l’Italia fu sull’orlo dell’insurrezione: la grande tensione accumulata dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, quando la Democrazia cristiana aveva sconfitto la sinistra social-comunista, si manifestò in tutta la sua violenza, alimentata dall’attentato al “Migliore”, come i compagni chiamavano Togliatti. Gli ex partigiani ripresero le armi nascoste all’occorrenza, ma la situazione, dopo l’esplosione di illegalità, tornò alla normalità, anche grazie all’atteggiamento del Pci che non soffiò sul fuoco della rivolta. Lo stesso Togliatti, subito dopo il fattaccio, aveva raccomandato: «Siate calmi, non perdete la testa».



Uno dei punti più critici della quasi rivoluzione fu in Toscana, nella zona del Monte Amiata, dove alcuni fattori concomitanti fecero sì che sangue e paura raggiungessero livelli elevatissimi. Nel pomeriggio del giorno 15 il ministro dell’Interno Mario Scelba, relazionando su quanto stava avvenendo in Italia, fornì «un’ultima notizia» riguardante Abbadia San Salvatore, dove «un reparto di pubblica sicurezza trovasi dislocato in una sottostazione telefonica del cavo che congiunge l’Italia settentrionale con l’Italia centrale: questo reparto sta per essere sopraffatto da migliaia di rivoltosi armati che tentano di conquistare la stazione telefonica». Il messaggio era chiaro: ad Abbadia era in corso una rivolta armata, i comunisti assaltavano le forze di polizia e volevano interrompere le comunicazioni per tagliare l’Italia in due. Scelba adombrava l’esistenza di un piano preordinato del Pci per prendere il potere con la forza. E quell’impianto telefonico, essendo strategico, doveva essere difeso a tutti i costi.



«In realtà – scrive Giancarlo Scarpari nel saggio “Amiata: dall’uso politico al falso storiografico” – alla notizia dell’attentato, in quel paese di minatori e in quelli vicini di Pian Castagnaio e di Castiglion d’Orcia, si ripetono le scene viste in molte altre località: intere famiglie scendono in piazza, si tengono comizi contro il governo, si formano cortei improvvisati: gruppi di dimostranti armati di bastoni sfogano la propria rabbia su qualche ex repubblichino, sulle sedi della Dc e delle Acli... altri gruppi circondano la caserma dei carabinieri per bloccarne l’uscita, piantonano l’ufficio postale e la centrale telefonica per evitare che vengano chiamati rinforzi; bloccano le vie di accesso al paese con tronchi d’albero. Ma è la presenza della sottostazione telefonica amplificatrice che attira l’attenzione di ministro e prefetto e che spinge all’invio dei rinforzi».



Così ad Abbadia, nel tardo pomeriggio del 15 luglio, arrivò un autocarro con 12 agenti di polizia, guidati dal maresciallo Virgilio Ranieri. E questo provocò la scintilla fatale. Per bloccarne l’ingresso ad Abbadia si fece avanti una piccola folla, vi furono momenti di tensione, due agenti vennero disarmati e portati via. Gli eventi erano fuori controllo: una bomba ferì un militare e altre sette persone. Un colpo di pistola raggiunse l’agente Giovanbattista Carloni che, trasportato in ospedale a Siena, morì la mattina successiva. Dopo la sparatoria il maresciallo Ranieri si avviò da solo verso la stazione telefonica per chiedere rinforzi, ma venne circondato dai dimostranti. Fu picchiato e ucciso con due coltellate (alcuni giornali riportarono che era stato ferocemente torturato, ma la notizia risultò del tutto falsa).



La situazione quindi era improvvisamente precipitata. Le strade rimasero deserte, la certezza della inevitabile repressione spinse parte di coloro che avevano partecipato alla protesta a rinchiudersi in casa, altri abbandonarono il paese, altri si rifugiarono in montagna e nei boschi. In effetti, ad Abbadia la mattina del 16 affluirono circa cinquecento uomini armati con tanto di mezzi blindati. Il paese andava punito per i due poliziotti morti.



Furono giornate terribili per l’Amiata. Scelba aveva organizzato un’autentica campagna bellica. La popolazione subì rastrellamenti indifferenziati, i montanari furono trattati da nemici dello Stato. Centinaia i fermati, gli arrestati e i denunciati. Giorni di terrore almeno fino al 22 luglio, quando i militari smobilitarono. —



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