I film e i libri sulla caduta del Muro di Berlino: scetticismo sul presente e tante sterili nostalgie

Non c’è da stupirsi se il maggior contributo alla riflessione sulla caduta del Muro di Berlino venne proprio da quegli scrittori nati e cresciuti nella Ddr che d’improvviso si trovarono senza una precisa identità, in una sorta di vuoto post-ideologico.

Tuttavia la “svolta” offrì più di uno spunto per riflettere sui due Stati tedeschi da poco scomparsi e sulle loro anomalie, spesso con ironia e umorismo come nei racconti e romanzi di Ingo Schulze, da “Semplici storie” a “Nuove vite”, da “Bolero berlinese” a “Adam e Evelyn” fino al recentissimo “Peter Holtz”. Proprio lui è stato il cronista ironico ed estroso del socialismo di ieri, deluso dal passato, ma ancor più scettico sulla realtà del presente.

Una solida riflessione è venuta anche dallo splendido poeta Durs Grünbein e da Uwe Tellkamp, autore del fortunato romanzo “La torre”, un’epopea negativa attraverso le aberrazioni del socialismo reale.

Tutti e tre nati negli anni 60 e originari di Dresda. Poi c’è chi come la berlinese dell’Est Jenny Erpenbeck, scrittrice e regista teatrale, attraversa con lucido disincanto nel romanzo “Di passaggio un’intera epoca, da Weimar al 1989”, o chi come Thomas Brussig dispensa humour sui suoi giovani eroi che a ridosso del Muro ascoltano Jimi Hendrix e leggono Sartre.
E infine Clemens Meyer, cresciuto a Lipsia, che nel novembre dell’89 aveva appena 12 anni, più o meno come i ragazzini del suo romanzo d’esordio del 2007, “Eravamo dei grandissimi”, per i quali l’adolescenza, dopo la riunificazione, fu una specie di «danza sulle macerie», senza futuro né prospettive.
Del resto il vecchio Günter Grass, il “pessimista nazionale”, aveva già detto a suo tempo che l’unificazione era prematura. E gli aveva fatto, da Est, Christa Wolf, coscienza inquieta e problematica di un socialismo ebbro di slogan e di promesse disattese. Erano le voci autorevoli di grandi scrittori che, sia pur con diverso orientamento, richiamavano tuttavia un bisogno di patria e di identità a lungo rimosso.
Proprio la strana anomalia tedesca ha reso sempre più incalzante la riflessione su presente e passato. Basta pensare al mondo di prevaricazioni e violenze evocato dal premio Nobel Herta Müller o, in chiave meno drammatica, alla prosa di Judith Hermann, che nel volume di racconti “Nient’altro che fantasmi” evoca tra Berlino e il Brandeburgo, con umorismo bislacco, personaggi vittime di sterili nostalgie, di rassegnazione e stanchezza.
Eppure proprio in quel lontano novembre si fece strada la speranza. Persino il vecchio Stephan Heym ebbe a dire: «È come se si fosse spalancata una finestra dopo tutti questi anni di stagnazione».
Ma a leggere i romanzi dello slesiano Christoph Hein, classe 1944, l’impressione è un’altra. Sia ne “La fine di Horn” sia in “Willenbrock” filtrano attraverso le crepe del socialismo infelicità e disorientamento.
La reazione di un tempo all’improbabile Eden socialista si proietta nella valutazione di un mondo privo di bussola, afflitto da immigrazione, intolleranza e globalizzazione selvaggia. È la risposta politica che oggi arriva dai vecchi Länder dell’Est. C’è solo da sperare che il Muro di Berlino non sia caduto invano. –
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