Il controcanto vintage di Billy Corgan proiettile con ali da farfalla

Roberto Mete

C’era una volta il mondo, che era un vampiro con la missione di dissanguare distruttori nascosti. E i proiettili volavano battendo ali colorate come le farfalle. E già allora, nella liturgia post punk degli anni’anni’90, gli Smashing Pumpkins celebravano le vite cambiate per sempre in un «tempo che non è mai tempo senza lasciare un po’ di giovinezza».

Vent’anni dopo, a giovinezza irrimediabilmente perduta, fuori dal grunge e dai fantasmi di Cobain, qualcuno è sopravvissuto: Eddie Vedder ha aperto la via celebrando le sue terre selvagge nella nuova dimensione acustica, Chris Cornell lo ha seguito soltanto per un po’, fino a quando il suo demone custode lo ha consentito. Ora, anche Billy Corgan (nativo di Chicago e per questo straniero nel manifesto musicale di Seattle) ha deciso di esplorare i territori dei cantastorie, allontanandosi per qualche serata dai Pumpkins, appena riproposti anche in Italia con la primissima formazione, con grande padronanza e soddisfazione, che si può percepire a ogni esibizione osservando attentamente la sua espressione superbamente stralunata.

Una sorta di controcanto, bellissimo, che non rappresenta solamente istinto di purificazione vintage, ma vuole cogliere l’urgenza di trasformare elettricità e furore in un progetto che, come per magia, amplifica l’emozione di tutti.

Questo e molto altro ci ha lasciato Corgan nella suggestiva cornice di Sesto al Reghena, al Sexto ’nplugged, festival musicale che ogni anno offre una line up più prestigiosa e accattivante.

Assomiglia a un vecchio licantropo burbero, Billy, un po’ bolso e ingobbito, schiavo del suo emarginarsi dalle consuetudini del mondo, con quella voce limpida, stridula e inconfondibile che ha accompagnato una scaletta studiata in due atti.

Il primo, privilegiando i nuovi progetti acustici (sta per uscire il secondo lavoro), con alcuni inediti e diversi spunti dall’ottimo Ogilala del 2017, sua prima opera solista rigorosamente unplugged, dal primo singolo Aeronaut, alle intense The Long Goodbye, Processional, Mandarynne, Half. Life of an Autodidact, con due intermezzi accompagnato dalla bella e giovane Katie Cole, che aveva aperto la serata, fino alla cover, un po’ scontata ma sempre gradita, di Wish Where Here dei Pink Floyd, sussurrata su poche note di pianoforte.

Il secondo atto, quello per cui ci siamo trovati tutti lì: le vecchie perle degli Smashing Pumpkins, da Thirty Three (il pezzo più bello e intenso della serata) a Spaceboy, da Tonight Tonight a 1979, da Disarm al bis di Today, un diamante dietro l’altro, come proiettili colorati verso la luna nascosta, sparati da una chitarra a forma di stella. E noi, disarmati, con un sorriso. –



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