Il “dopo Porzûs” tra sentenze e polemiche: simbolo dei conflitti interni della Resistenza

Il processo giudiziario si è chiuso con l’amnistia nel 1959, negli anni Novanta è ripreso lo scambio di accuse politiche
ANTEPRIMA PORZUS 23 AGOSTO CERIMONIA PRESSO LA MALGA TELEFOTO COPYRIGHT FOTO AGENCY ANTEPRIMA UDINE
ANTEPRIMA PORZUS 23 AGOSTO CERIMONIA PRESSO LA MALGA TELEFOTO COPYRIGHT FOTO AGENCY ANTEPRIMA UDINE

La strage dei partigiani “verdi” dell’Osoppo alle malghe di Porzûs, nel febbraio 1945, da parte dei fazzoletti rossi della Garibaldi ebbe un lungo strascico giudiziario, a cui seguirono polemiche giornalistiche e storiografiche che durano ancor oggi. Se non suonasse irrispettoso verso quei morti, si potrebbe addirittura dire che c’è un Porzûs dopo Porzûs quasi più importante di Porzûs stesso.

Dopo la denuncia della strage, nel giugno 1945, ci fu bisogno di varie inchieste e di un interminabile palleggio tra procure civili e militari prima di arrivare ad un processo, che si svolse a Lucca nell’ottobre 1951. Nel frattempo alcuni protagonisti, come il responsabile della federazione del PCd’I di Udine Ostelio Modesti, erano stati incarcerati, mentre diversi erano scappati all’estero, soprattutto in Jugoslavia, come il principale ricercato, Mario Toffanin “Giacca” (al quale in seguito Pertini concesse la grazia).

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La prima sentenza, che inflisse centinaia di anni di carcere per omicidio a una quarantina di imputati, rigettò tuttavia l’accusa di tradimento e individuò nelle discordie politiche e personali tra comandi osovani e garibaldini la causa originaria dell’eccidio. Il dibattimento di secondo grado (Firenze, 1954) ampliò lo spettro dei colpevoli, condannando anche i comandanti della Garibaldi come Padoan, responsabili di aver protetto i comandanti gappisti.

Questa sentenza inasprì le pene ma rigettò ancora l’accusa di tradimento, con soddisfazione dell’“L’Unità” che lo accolse come certificazione che i garibaldini avevano combattuto per la patria e non contro di essa. La Cassazione, in terzo grado, confermò le condanne e ordinò un nuovo processo con l’accusa di tradimento per attentato contro l’integrità dello Stato, che non ebbe però mai luogo perché la sopraggiunta amnistia del 1959 chiuse, dopo quindici anni, la vicenda giudiziaria di Porzûs.

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Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, negli anni del più duro scontro frontale tra Pci e Dc per la guida del Paese, il caso Porzûs venne seguito con forte partecipazione ideologica. Per gli anti-comunisti rappresentava il disvelamento delle reali intenzioni del Pci, che avrebbe voluto una instaurare anche in Italia una dittatura comunista, nonché del falso patriottismo dei garibaldini, pronubi ai voleri del maresciallo di Tito (che però nel 1948 avrebbe rotto con Mosca).

Per i comunisti era invece stato la conseguenza dei rapporti poco chiari tra partigianato moderato e monarchico, da una parte, e sedicenti “patrioti” fascisti e anti-jugoslavi dall’altra. Un’interpretazione che parve confermata molti anni dopo quando fu resa nota l’esistenza della rete paramilitare Gladio, creata per contrastare una possibile invasione comunista da est e alla quale presero parte anche ex-partigiani osovani: a sinistra sembrò si fosse trovata la prova del tradimento dell’Osoppo.

Nei successivi decenni attorno alla vicenda Porzûs continuarono ad accumularsi documenti e interpretazioni, mentre tra Associazione Partigiani Osoppo, nata nel 1947, e Associazione Nazionale Partigiani d’Italia rimaneva il gelo. Negli anni Novanta la polemica riprese con i toni di quarant’anni prima, nell’ambito di una riconsiderazione della Resistenza come “grande bugia” (Gianpaolo Pansa).

L’eccidio fu riportato all’attenzione del grande pubblico come avvenimento esemplare della catena di esecuzioni di massa, omicidi e rappresaglie compiuti dai partigiani comunisti, oppure, sul versante opposto, come parte di un complotto anticomunista architettato da servizi segreti angloamericani.

Riprese lo scambio delle accuse tra le due parti: da sinistra quella di sfruttare politicamente un episodio marginale della Resistenza, da destra di mascherare il vero volto totalitario e antidemocratico della partecipazione comunista, che sarebbe stata finalizzata a creare i presupposti di una rivoluzione sociale.

La storiografia sulla Resistenza ha ormai abbandonato l’idea antistorica di una guerra di Liberazione unitaria e monolitica, sottolineandone piuttosto le molte incertezze, fratture, contrapposizioni. Porzûs è il simbolo della conflittualità interna, di carattere ideologico e militare, del movimento resistenziale, che in quest’area di confine trovò il suo apice. Anche per questo è forse inevitabile che, nonostante molti particolari, non tutti, della vicenda storica sono ormai noti e sebbene tutti i protagonisti siano ormai scomparsi, le polemiche non sembrino destinate a scomparire.

Come in fin dei conti è giusto che sia per un nodo cruciale della storia del Paese e per la stessa disciplina storica, che si alimenta di visioni contrapposte, di affermazioni e di smentite, tutte lecite e utili purché oneste e basate su documentazione verificabile.

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