Il fascino di quel tempietto barocco un “intruso” nell’Aquileia romana



La chiesetta, a pianta ottagonale, con una piccola abside, è appartata e spunta lungo il muro di cinta del Museo archeologico. Sembra volgere le spalle a tutto ciò che ad Aquileia invece è celebre e prezioso, come il foro e la splendida basilica. Racchiude una storia sé, che contrasta rispetto a quanto le sta attorno, ma proprio per questo richiama l’attenzione.

La domanda è semplice e immediata: cosa ci fa quel tempietto in stile barocco piovuto in mezzo a un universo dove tutto, a partire dal museo contiguo, parla di ben altro? Pare una sorta di controcanto o di bizzarria, ma con un senso logico perché, come dice il parroco don Adelchi Cabass, la sua dimensione e la collocazione sono da sempre, per la gente del posto, un invito a fare comunità, a stare insieme, a stringersi. Insomma, tanto è maestosa la basilica quanto è intima, raccolta, suggestiva la chiesetta, dedicata a Sant’Antonio da Padova.

Vicenda singolare allora per ciò che questo luogo rappresenta e per come è nato, paracadutato lì, a due passi dal cuore archeologico, a ricordare che il passato aquileiese, nel suo stile architettonico e nella sua anima, non ha solamente straordinari echi romani, paleocristiani o patriarchini. C’è stato anche un dopo e un vissuto che emerge ora nella pagine di un libro pubblicato dalla “Forum” con il patrocinio e il sostegno di Comune, parrocchia e Inner Wheel club. S’intitola “Storia, arte e restauro di una chiesa barocca ad Aquileia. Sant’Antonio e le tracce di fede e speranza nelle iscrizioni dei soldati italiani durante la Grande Guerra”. A cura di Bruno Micali e Gianpaolo Chendi, propone anche saggi di Maria Concetta di Micco, Daniela Cisilino, Luisa Fogar, Maria Caterina Olivieri, Gabriella Grassi, Giuliana Grinami e Barbara Margarit.

Il volume è un invito a recarsi in via Roma ad Aquileia in questo scrigno delizioso, fatto costruire da Mattia Rizzi, proprietario terriero, attorno al 1676, grazie all’abbondanza di materiale lapideo derivato dallo spoglio della città romana e secondo lo stile barocco, in auge allora nella contea di Gorizia dove c’era un fervore edificatorio religioso in chiave anche anti-riforma protestante. Nel più recente restauro, una ventina di anni fa, nella chiesa spuntarono, come esempio di struggente memoria collettiva, le scritte lasciate sulle pareti dai soldati italiani durante la Grande Guerra. Arrivarono qui di slancio nel maggio del 1915, in territorio comunque “nemico” perché i ragazzi del paese combattevano con gli austriaci, e rimasero fino a Caporetto. Prima di andare sul Carso, lasciavano messaggi di speranza e di fede, tutti ora salvati e attribuiti ai loro autori, di cui sono state ricostruite le storie, come nel caso del bersagliere Ferdinando Begliomini, classe 1898, toscano, che poi al fronte perse entrambe le mani in uno scoppio. Sul muro di Sant’Antonio scrisse: “Iddio prega per me, con santo ritorno”. —



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