Il Friuli in locomotiva ripercorre la sua storia da Radetzky a Pasolini

Udine, almeno in passato, non ha avuto un buon rapporto con i treni. Casarsa invece sí e non a caso è considerata dagli esperti la cittadina in regione a piú alto tasso ferroviario. Questo non accade solamente perché lì abitava un certo Pier Paolo Pasolini che in un bellissimo racconto, intitolato “Il treno di Casarsa”, scrisse nel 1957: «Ricordo il mio primo viaggio: sono in uno scompartimento di legno. Avevo meno di tre anni, il treno puntava dritto verso la casa di mia mamma, che era vicina a me, una bambina anche lei, tanto piú che lo è tutt’ora».
L’importanza casarsese in tema di binari è dovuta alle scelte fatte nel periodo cruciale, a metà Ottocento, quando il Friuli era sotto l’Austria e tutto era deciso da una direzione tecnica guidata dall’ingegner Luigi Negrelli, uomo di fiducia e amico di Josef Radetzky, il potentissimo governatore del Lombardo Veneto. Per motivi economici e strategici, gli Asburgo vollero dotare i loro territori di adeguati collegamenti e nacque il progetto della cosiddetta “Veneto-Illirica”, ovvero la Mestre-Trieste da inserire all’interno della linea che doveva velocizzare i rapporti fra le principali città dell’impero, e cioè Vienna e Milano.
La fortuna di Casarsa cominciò allora in quanto divenne terminal piú a lungo del previsto di una ferrovia in costruzione che stava puntando verso Udine dovendo affrontare incertezze causate dal tracciato e dal superamento del Tagliamento, nodo sul quale intervenne il mitico ingegner Carlo Ghega, mago indiscusso in un campo che era in fase di crescita esplosiva. In questo modo, il luogo pasoliniano per eccellenza si pose al centro del discorso, diventando anche stazione della vicina (e un po’ invidiosa) San Vito al Tagliamento e sorpassando per importanza Pordenone, dove pure l’arrivo dei binari venne festeggiato in pompa magna, come nei desideri delle autorità austriache, le quali esigevano che le nuove stazioni sorgessero vicino al cuore delle città, essendovi collegate da appropriate “Bahnhofstrasse”, ovvero viali da dedicare all’imperatore Francesco Giuseppe, in segno di ringraziamento e di fedeltà perenne.
Cosa che i pordenonesi eseguirono puntualmente dovendo risolvere solo il problema di come passar sopra le acque del Noncello, mentre la riottosa Udine non lo fece. Anzi, a un certo punto si temette che la stazione, inizialmente alloggiata in strutture poco adeguate e realizzate in terreni acquistati dalla diocesi, che a sua volta li aveva appena comperati da un privato realizzando un gruzzoletto nell’affare, dovesse essere ancora piú spostata in campagna.
Questa situazione fece sí che l’arrivo del primo treno da Casarsa fosse accolto il 21 luglio 1860 quasi con indifferenza, anche perché il momento politico non era dei piú esaltanti per Vienna, vista la nuova guerra apertasi con il Regno di Sardegna e gli eventi straordinari, spedizione dei Mille compresa, che un anno dopo portarono all’Unità d’Italia. Quel giorno il convoglio inaugurale partito da Mestre alle ore 6.20 arrivò zitto zitto a Udine senza clamori mentre cinque anni prima lo stesso evento era stato celebrato a Pordenone con festeggiamenti pirotecnici e affollati.
Questa indifferenza udinese verso la ferrovia può essere raccontata anche con un altro episodio, curioso e inedito. Se la “Veneto-Illirica” passò proprio nel capoluogo friulano, con un percorso preferito alla linea cosiddetta bassa, attraverso Portogruaro e Cervignano, lo si dovette alle battaglie condotte altrove, come a Conegliano dove, pur nei limiti posti dalla censura austriaca, andò in scena una battaglia popolare per avere in casa propria, quasi in centro, il passaggio del treno. E anche avveduti imprenditori triestini si impegnarono in tal senso avendo capito l’importanza di servire i territori friulani, pur dovendo allungare un po’ il tracciato. In questo caso, pertanto, la storica rivalità tra Udine e Trieste non ostacolò scelte strategiche intelligenti, che nei decenni hanno fatto sentire benefici e costanti effetti.
Spiegata cosí, la storia ferroviaria in Friuli diventa una sorta di romanzo eccezionale e intrigante, ricco di spunti, riflessioni, personaggi, utili per capire tante cose riguardanti la situazione attuale. Non si tratta solamente di vicende legate allo spostamento di passeggeri e merci, oppure alla costruzione di opere gigantesche, perché dentro quei progetti che presero piede nell’Ottocento, trovando il massimo sviluppo negli anni Trenta del Novecento fra linee principali e minori oltre alle famose tranvie, è scritta ampia parte dell’economia regionale e delle consuetudini di vita riservateci dalla nostra terra.
Su questi temi in passato si sono esercitati alcuni specialisti del settore (il primo in assoluto a capire l’importanza delle ferrovie fu il grande giornalista Pacifico Valussi, che dovette battersi contro tanta assurda indifferenza), ma solo adesso esce un volume ampio e documentato accessibile anche ai neofiti per avventurarsi in un mondo affascinante, sorprendente. Si intitola “Treni d’archivio. Capitoli di storia delle ferrovie in Friuli” (540 pagine, 35 euro), edito dalla Forum di Udine nella collana diretta da Paolo Pecorari, con il sostegno della Provincia e della Fondazione Crup.
Sarà presentato domani, alle 17.30, a palazzo Belgrado a Udine. L’autore è Romano Vecchiet, direttore della Biblioteca civica Joppi di Udine, che continua cosí una certosina e intelligente opera di documentazione su treni e ferrovie, frutto di precedenti libri e di una passione ereditata dal papà Mario, cui è dedicata questa pubblicazione che a sua volta diventa un viaggio attraverso una vicenda - come dice nella prefazione il professor Stefano Maggi (che domani dialogherà con l’autore) - «fatta a volte di campanilismi, ma più spesso di visioni ampie e di speranze».
Pagine che riportano a un passato fervido, pure romantico, di battaglie vinte o perse, ma comunque di crescita rispetto a una attualità molto critica: dal 2000, ricorda Vecchiet, c’è stata la progressiva dismissione della rete ferroviaria locale, mentre aumentano i disservizi, si cancellano tanti convogli e si punta su quelli piú remunerativi, come le famose Frecce. Momento dunque amaro, durissimo, di ripiegamento, ma proprio per questo è utile conoscere la storia delle ferrovie, cercando di innescare una controtendenza, un recupero del suo patrimonio, anche una sorta di nuovo turismo sulle tracce delle ferrovie perdute oppure delle linee del desiderio, quelle solo vagheggiate e mai costruite.
Il libro di Vecchiet va consultato e letto con la passione di chi l’ha scritto. Ci sono pagine notevoli, che raccontano per esempio il miraggio della Udine-Mare di cui unica timida testimonianza rimane la ferrovia fino a Cervignano, oppure quelle sugli epici scontri fra l’industriale Arturo Malignani e il sindaco di Tricesimo, Giovanni Sbuelz, per il progetto del tram bianco da Udine a Tarcento.
Fu un duello acceso, snervante, che oppose il self-made man per eccellenza di casa nostra e un sindaco fiero amministratore del suo Comune, che un secolo fa era il fiore all’occhiello del turismo friulano. Nessuno dei due aveva torto eppure sul tracciato per i binari della tranvia non lesinarono energie e carte bollate. Alla fine il tram passò, ma Sbuelz non venne sconfitto. Inaugurato nel 1927, toccò il record di traffico nel ’46 con piú di centomila passeggeri al mese.
La favola del tram bianco si chiuse per sempre nel 1959 quando il trasporto su gomma ebbe facilmente la meglio. Vennero cancellate le tranvie, aperte le strade di scorrimento, coperte le rogge a Udine: cominciava il nuovo mondo con il progressivo tramonto del treno, di cui ora però riaffiora una certa nostalgia dal sapore proustiano, come quella in cui Nadia Pauluzzo evoca «il suo vagabondare giocoso, domenicale, felice». Allora è il momento di salire di nuovo in carrozza, fra le pagine di un libro prezioso.
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