Il Gelso d’oro alla carriera a Kitano: «Un premio che va dritto al mio cuore»
L’attore e regista giapponese più iconico riceverà il riconoscimento al Giovanni da Udine
Un paio d’anni di corteggiamento discreto, no fiori ma parecchie mail, per un sì da Takeshi Kitano, il regista giapponese più iconico: Leone d’oro con “Hana-bi” nel 1997 e d’argento con “Zatoichi”, nel 2003, nessuno con così tanti generi intrappolati sul grande schermo, dal comico alla morte, attraversando la violenza allo stato puro, il suicidio e la poesia. E nessun orientale celebre, come lui, può vantare un poderoso fan club italiano. Oh yes. Curioso, no? Paese che, fra l’altro, Kitano adora. Per sua stessa ammissione.
E a questo Feff 24 delle connessioni e del ritorno (alla normalità) il buon Takeshi, mesi fa, cedette e disse: ok, arrivo. Il Far East Festival lo premierà col Gelso d’oro alla carriera sul palco del Giovanni da Udine domani sera, alle 19.20, poco prima della proiezione di “Sonatine”, gangster epic di una certa fama internazionale da quando fu lanciato dalla sezione “Un Certain Regard” del festival francese del 1993.
Scrive Kitano di suo pugno a seguito dell’invito di Far East: «Sono commosso, orgoglioso e felice di questo riconoscimento, un premio che va dritto al mio cuore. Tutta la mia gratitudine agli organizzatori. Al tempo stesso, però, mi sento triste per la situazione dell’Ucraina. In un momento così difficile spero che tutti noi ricordiamo quanto la cultura e i film possano unire gli esseri umani».
Non bastano quattro righe per circumnavigare un autentico fenomeno d’arte, settantacinquenne – nasce a Tokyo nel 1947 quarto figlio di un padre decoratore, alcolizzato e violento – pittore surreale (tanto lui ti dirà che i suoi quadri valgono poco, non tanto per modestia, quanto per nichilismo) presentatore, uomo di televisione, sceneggiatore, abilissimo montatore.
Alain Delon lo vide a Cannes e lo definì «un attore con tre espressioni». Poco male. Sergio Leone diceva di Clint Eastwood che ne aveva soltanto due: con il cappello da cowboy e senza.
La vita gli riservò un dramma, di quelli che non smettono mai di farsi sentire, un gravissimo incidente motociclistico, era il 1994, a causa del quale rimase paralizzato nella parte destra del volto. Lui poi confessò che si trattò di un “inconscio tentativo di suicidio”, tematica presente nei suoi film e nella realtà giapponese. Pare sia uno dei Paesi con la più alta percentuale di tentativi riusciti.
Scendendo nel popolare televisivo non tutti sanno che “Mai dire Banzai”, cult assoluto di tv trash alla fine degli anni Ottanta e commentato dalla Gialappa’s Band, fu il risultato di una miscellanea fra "Takeshi Castle”, appunto dell’amico Kitano, e “The Gaman”, un prodotto di Fuji tv.
Diciamo questo non soltanto per la grande popolarità che ebbe il programma, ma soprattutto per rimarcare la molteplici vite artistiche di Kitano con la sua bella personalità marcata in ogni opera sebbene cambino di frequente le scenografie e i pensieri di sottofondo.
Analizzando molti dei suoi film, con il prezioso aiuto del critico Giorgio Placereani, profondo conoscitore dell’universo cinematografico orientale, risalta “l’asciuttezza” dei suoi gesti che si riassumono diciamo quasi tutti in una scena: il gioco di sangue sul muro provocato da un abile movimento di katana di “Zatoiki”.
La consapevolezza del gesto violento, la yakuza di “Hana-bi” e di “Brother” e la dolcezza inaspettata de “L’estate di Kikujiro”, il viaggio di un bimbo alla ricerca della madre: uno dei registi che più hanno la capacità di spiazzarti.
In verità, pochi.
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