Il mito della “vittoria mutilata” e l’avventura del Vate a Fiume

Il Louvre di Parigi ospita la Nike di Samotracia, la celebre statua che personifica la Vittoria e che, al pari di tante altre sculture antiche, ci è giunta mancante di alcune parti, “mutilata”. Essa, assieme al doloroso spettacolo della vasta schiera di mutilati di guerra italiani, ispirò a Gabriele D’Annunzio un’espressione capace di alimentare a lungo rivendicazioni di stampo nazionalista e imperialista.

«Vittoria nostra, non sarai mutilata!», tuonò il Vate della nostra letteratura, che con la «bella avventura» della guerra (proprio così la considerava) aveva amplificato la sua fama. L’espressione di cui parliamo apparve in un componimento pubblicato in prima pagina sul Corriere della Sera a guerra quasi finita, il 24 ottobre 1918: in buona sostanza D’Annunzio, presentendo un esito a suo giudizio sfavorevole dei trattati di pace, ammoniva di non privare l’Italia vittoriosa di ciò che essa aveva meritato sui campi di battaglia. D’altronde, già prima di Vittorio Veneto egli aveva esclamato: «Sento fetor di pace».

Frasi come questa, per inciso, sconsigliano celebrazioni dannunziane che siano in qualche modo legate al contesto storico qui in considerazione.

A definire la vittoria mutilata un «mito» su cui si sarebbe poi fondata l’ideologia fascista ci avrebbe pensato più avanti Gaetano Salvemini.

Ma intanto quel mito – fondato su premesse distorte e pretese eccessive – aveva fatto presa su una parte considerevole dell’opinione pubblica italiana, persuasa che la vittoria fosse diventata, sul tavolo della pace, una sostanziale sconfitta.

L’entrata in guerra dell’Italia, il 24 maggio del 1915, era stata preceduta da un’aggressiva mobilitazione nazionalista di cui lo stesso D’Annunzio era stato primo attore. In un suo celebre discorso a Roma aveva esclamato: «Se considerato è come crimine l’incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo crimine», e ancora: «Ogni eccesso della forza è lecito» (per «impedire che la Patria si perda», ovviamente…).

Le aspettative di ampie espansioni territoriali erano forti e diffuse: il Patto di Londra (un accordo segreto stipulato il 26 aprile 1915 con Francia, Russia e Gran Bretagna) prevedeva che in caso di vittoria l’Italia avrebbe fra le altre cose allargato i confini verso Istria e Dalmazia; ma era figlio di una vecchia diplomazia superata sia dal ciclone della guerra sia dai dettami del presidente americano Wilson.

Nel tentativo di sostenere i diritti del nostro Paese, veri o immaginari che fossero, alla Conferenza di pace di Versailles il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino cozzarono contro riserve, distinguo e opposizioni non solo di Wilson, ma anche del britannico Loyd George e del francese Clemenceau.

Nel 1919, oltre a non ottenere i territori sperati in Istria e Dalmazia, che diventarono parte del nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, l’Italia non ebbe neppure la città di Fiume, che si era dichiarata favorevole all’annessione all’Italia e che l’Italia aveva richiesto solo con il crollo (inizialmente imprevisto) dell’impero austroungarico. Inghilterra e Francia, inoltre, si spartirono le colonie sottratte ai tedeschi. Alla fine, in realtà, l’Italia non conseguì risultati scarsi (si pensi a Trieste, al Trentino, all’Alto Adige…); nondimeno, la fine della guerra innescò nuovi conflitti sociali e politici.

Intanto Fiume, abitata in prevalenza da persone che parlavano la lingua italiana (mentre nell’entroterra la popolazione era slava) divenne un obiettivo verso cui il poeta-soldato pescarese si proiettò con la ben nota impresa: fu la sua «bella fra le belle avventure», iniziata nel settembre del 1919 e conclusasi tragicamente a cavallo tra il 1920 e il 1921. Avvicinandosi ora il centenario della stessa, se ne parlerà diffusamente.

 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto