Il mito di Napoleone si erge su una montagna di morti

La mostra di Udine ripercorre la parabola dell’imperatore e riformatore assoluto. Mille caduti al primo scontro in Friuli, tre mila a Gradisca. Ma anche il codice civile

Se uno si esalta, in Friuli, gli fanno calare le ali con un: «Gi à passadi ancje a Napoleon ch’al veve i spirons di àur!» («Le manie sono scomparse a Napoleone, che aveva speroni d’oro!»). Il mito rimane. La conoscenza storica si rarefà.

Continua la sterminata serie di pubblicazioni sulle singole fasi. Si accendono fantasie sulla sua morte, i perché di Waterloo. Se uno legge il “5 maggio” del Manzoni, vede che un grande si accosta a un grande, con giudizio sospeso e trepido rispetto; forse il modo più saggio per affrontare il tema; il Foscolo, acceso di italiche speranze, ne era rimasto deluso.

Nella chiesa di San Francesco, a Udine, inaugurata “J’Arrive - Napoleone Bonaparte, le cinque facce del trionfo”: quadri, oggetti, un mare di immagini, ripercorre la vicenda umana, politica, militare; dalla nascita, all’epilogo, di Sant’Elena.

Dalla rivoluzione, al respiro europeo e mediterraneo, fin nelle sue carte, col tentativo di imparare l’inglese, per non rimanere ancor più confinato, nell’isoletta dello sterminato Atlantico.

La sua grandezza si erse anche su montagne di morti: dal migliaio nel primo scontro in Friuli (1797), ai tremila di Gradisca d’Isonzo, ai numeri crescenti in Europa, Mediterraneo, Africa, fino al culmine: percentuali minime di reduci, fra gli oltre 600 mila partiti alla conquista dell’Impero russo!

Dalla famelica Armata d’Italia, che drenò ori e argenti alle chiese ai fasti dell’Impero; dalla repubblica, all’apparentarsi agli Asburgo; al rifiorire della leggenda al ritorno delle sue spoglie a Parigi.

Dal giovane ufficiale all’imperatore morente, ricordato dai dipinti d’epoca e ritratto dalla maschera funebre – di pace raggiunta – rimangono grandezze e miserie, riforme solo veicolate o pensate; un sistema amministrativo efficiente e moderno.

Muore (ufficialmente durerà ancora qualche decennio) il peggio del feudalesimo; seminata l’idea repubblicana, che ebbe palpiti di vita. Entra la Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Si rafforza nella sanità l’idea della vaccinazione; in uso viene il sistema metrico decimale. La scuola, soprattutto nella parte dell’ex Repubblica di Venezia, che non ci aveva pensato, per la prima volta vede un tentativo di diffusione capillare (riforma scolastica, in Austria, dal 1774).

Il nome Campoformido entra nella storia; il Regno dell’Illirico - austriaco - ricalca le napoleoniche “Provincie Illiriche”. Vira verso l’eco dei quel mondo Villa Vicentina, già residenza della principessa Elisa Baiocchi, sorella di Napoleone (morta a Trieste a 43 anni e sepolta in San Petronio a Bologna). Se l’antica commenda dei Cavalieri di Malta, da lei acquistata si avvia (un dolore per la Bassa!) al disfacimento, sopravvive la cappella neogotica di Villa Baiocchi, luogo di eterno riposo per il nipote di Elisa, Benedetto Napoleone, suicida a Parigi.

Più felice la sorte di un’opera di Napoleone, a Palmanova (quivi dichiarò guerra a Venezia, il primo maggio 1797): l’allargamento della fortezza veneta, da lui voluto, realizzato dagli ingegneri militari, che, nel suo inclusivo modo di procedere, erano esponenti della vecchia nobiltà e giovani del mondo nuovo. Una cerchia fortificatoria, che emerge in nove lunette, inghirlanda la parte più antica.

Al centro della piazza, nelle stella che ha forma di città - eco della rivoluzione - le scritte sulla base monumentale dei fasti veneti. Sopra il camauro e i fiori della stemma di un doge, parole violente, tremende, ultimative di un “albero della libertà”: s’intonano con quel scrisse Napoleone a Sant’Elena (1815): «La rivoluzione rigenera la morale, come il letame più sporco dà vita alla più nobile vegetazione».

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