Il ritratto di Gae Aulenti: «Architetto geniale che odiava le macerie e grande intellettuale»
Il ritratto della vita professionale e privata nel libro di Annarita Briganti.
La presentazione alle 17 all’Auditorium Largo San Giorgio

Nel 1987 il commerciante di stoffe Dante Cavazzini lascia un immobile al Comune di udine affinché lo utilizzasse per fini culturali. Sette anni dopo, la giunta decide di trasformare Casa Cavazzini in un museo e affida la progettazione allo studio Gae Aulenti di Milano. Poi, per un contenzioso con il Comune, la grande progettista di origini friulane (era nata nel 1927 a Palazzolo dello Stella) passa la mano e il progetto viene rivisto da un altro studio.
A ricordare la figura di una straordinaria protagonista del ’900 architettonico è la giornalista Annarita Briganti, già autrice di altri ritratti di personaggi femminile (l’ultimo, Coco Chanel) in Gae Aulenti. Riflessioni e pensieri sull'Architetto Geniale (Cairo editore), che sarà presentato oggi alle 17, all’Auditorium Largo San Giorgio nell’ambito di Pordenonelegge.
Perché un libro su Gae Aulenti e come si è imbattuta in lei?
«Amo le figure di donne indocili e libere, che non si fanno tarpare le ali, come per esempio Ada Merini, Coco Chanel (che ho già raccontato) e appunto Gae Aulenti. Tutte donne sopravvissute alla Seconda guerra mondiale, oggi siamo in guerra in Ucraina, quindi in un certo senso parliamo anche del presente. Il 31 ottobre saranno dieci anni dalla sua morte. Mi sono resa conto che nessuno sa nulla di lei. Se trovi qualcuno che ammira una sua opera in Italia senti dire: “Oh, ma lo ha fatto Gae Aulenti?” mentre all’estero ti capita di sentire: “Oh ma lo ha fatto un’italiana?”.
Non solo architetta, ma anche designer (pensiamo ai tanti oggetti e mobili da lei disegnati, esposti all Triennale di Milano)e pure scenografa per il teatro...
«È stata anche una grande intellettuale, si è interessata di cultura con estremo rigore, era una donna che sapeva anticipare i tempi. Con la celebre scultura “L’ago e il filo” in piazzale Cadorna a Milano aveva visto tutto prima del tempo».
E poi era anche partigiana e un simbolo della lotta contro le discriminazioni...
«Negli anni Cinquanta erano poche le donne a laurearsi, in un periodo in cui a scuola prendevano voti più bassi dei maschi. Dopo la laurea si è imposta con la forza del lavoro, con il fare. Quando arrivava in cantiere si chiedevano: “Dov’è l’architetto?”, “Sono io” rispondeva».
E com’è oggi la situazione delle donne in rapporto al lavoro?
«È cambiato poco, è sempre un mondo molto maschilista. In Italia lavora una donna su due. Se pensiamo all’architettura, ci vengono in mente pochi nomi, soprattutto di archistar: penso a Zaha Hadid, per esempio, presa in giro per i suoi grattacieli “storti”, poi copiati in tutto il mondo. C’è ancora tanto pregiudizio».
C’è una frase che Gae Aulenti ripeteva spesso, “non sopporto le macerie”. Considerava l’architettura un “mestiere utile”...
«Bisogna pensare all’Italia travolta dalla Seconda guerra mondiale. L’architettura è veramente un mestiere simbolico, anche oggi, in un’epoca di distruzione, violenze e odio sociale».
Una carriera importantissima, che l’ha portata da Milano in giro per il mondo, a realizzare opere celebri: il Museo d’Orsay a Parigi, l’Istituto di cultura italiana di Tokio...). E ancora il restauro di palazzo Grassi, la metropolitana a Napoli.. Ma era anche una donna di grandi passioni nella vita privata».
«Nel libro ho voluto proprio evidenziare proprio aspetto. Pensiamo al suo grande amore, Carlo Ripa di Meana: sembrerebbe all’opposto, eppure si sono amati tantissimo. Un’amore poi sostituito da quello per un’altra donna che era l’opposto di Gae. La ricordo quindi nei suoi aspetti umani. Per esempio ho ricostruita la scena dell’addio quando lui va a parigi da lei, già malata, e si dicono “arrivederci”».
Pensi ad Aulenti e pensi a Milano, la sua “città”...
«Un simbolo per scelta, un posto in cui se vali qualcosa riesci a emergere. Una città che l’ha amata a punto di dedicarle subito una piazza, cuore centrale della nuova metropoli. Era poi era una donna che univa Nord e Sud, un bell’esempio in un’epoca di pragmatismo. Una donna forte, in questo dunque molto friulana dunque, che viveva nella Milano produttiva ma che era molto legata alle sue origini, un Friuli pieno di affetti e di ricordi».
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