Il teatro che meraviglia ancora
Il Css fa il pieno di spettatori e svela il nuovo progetto Generazioni

Un mix di forme e linguaggi così affascinante che non è difficile restarne stregati: il Css teatro stabile di innovazione, fondato nel 1978 e riconosciuto dal ministero della Cultura nel 1984, è riuscito a stringere un patto con il pubblico che si rinnova ogni anno, e che i numeri non fanno altro che dimostrare.
Una direzione artistica trifronte, composta da Fabrizia Maggi, Rita Maffei e Fabrizio Arcuri, che lavora a tre stagioni, per oltre 30 mila spettatori all’anno: quali sono gli elementi forti della vostra offerta?
«Siamo l’unico teatro di produzione di Udine e, lavorando sempre insieme, tra brainstorming e discussioni anche molto accese, diamo vita ogni anno a tre stagioni: Contatto, la stagione di teatro contemporaneo, giunta alla 43esima edizione, Contatto Tig per l’infanzia e la gioventù, in matinée per le scuole (dedicata a bambini e ragazzi dai 3 ai 19 anni), Contatto Tig in famiglia (rivolta ai bimbi dai 3 ai 10 anni) e, a Cervignano del Friuli, la stagione di teatro di prosa e danza del Pasolini, che conta 28 edizioni. A questo si aggiungono le produzioni che realizziamo in sede e poi girano l’Italia e l’estero, con sconfinamenti dall’altra parte del mondo».
Il vostro progetto triennale 2025-2027, presentato al ministero della Cultura, si intitola “Generazioni”: intorno a che cosa ruota?
«Noi da sempre ci rivolgiamo, sia per la produzione, sia per l’ospitalità e le attività, a un ampio ventaglio di utenza: bambini, scuole, famiglie, adulti, cui si aggiungono i detenuti, le persone disabili e gli anziani. Ecco il senso del titolo del progetto: includere tutte le generazioni, cercando progetti ad hoc per ogni fascia d’età e facendo sì che si incrocino e dialoghino tramite lo strumento teatrale. L’aspetto sorprendente di questo momento storico è che per la prima volta convivono ben sette generazioni tutte insieme: avere la possibilità di rivolgersi a fasce d’età così diverse è un’opportunità estremamente stimolante. La parola “generazione”, poi, ci fa pensare alla creazione artistica in sé, al “generare azione”: tutte le attività che faremo saranno legate al tentativo di declinare il termine nelle diverse accezioni».
Quante persone lavorano al Css?
«Siamo 25 dipendenti a tempo indeterminato tra amministrazione, comunicazione e personale tecnico, cui ogni anno si aggiungono tra i 200 e i 250 scritturati, che sono artisti, collaboratori (registi, scenografi, costumisti). Abbiamo un gruppo di artisti di riferimento e con loro, appartenenti a generazioni completamente diverse, costruiamo le nostre proposte».
In attesa della risposta del ministero al vostro progetto triennale, siete già partiti con la programmazione.
«Il parere da Roma arriverà tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate, ma noi procediamo con le attività programmate all’inizio dell’anno scorso. La nostra stagione, infatti, ha una durata di dodici mesi, non copre solo un periodo come in altri teatri d’Italia. Questo implica la necessità di lavorare e rimanere sempre concentrati, ma è stata una scelta che abbiamo fatto da quando si è conclusa la drammatica parentesi del Covid».
Qual è l’età media del pubblico che viene a teatro?
«Nel caso del Css, è molto bassa: lavoriamo sodo per interessare il pubblico di ogni età, ma ci concentriamo particolarmente sulla fascia degli under 30. Il nostro progetto, del resto, ha circa 30 anni ed è cresciuto anche grazie alla collaborazione con l’università e il mondo dei giovani: il Css organizza, infatti, laboratori loro dedicati, con gli artisti ospiti del teatro Contatto e le residenze di Villa Manin, Dialoghi, che portano formazioni di artisti, italiani e internazionali, a vivere e lavorare nella Villa, condividendo, attraverso workshop e incontri, le loro sperimentazioni legate alle multidisciplinarità dei linguaggi, dal teatro alla musica dal vivo e alla danza».
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da grandi trasformazioni: quanto ha impattato la tecnologia sul vostro lavoro?
«Molto, ma l’abbiamo sfruttata come uno strumento, che ha indubbi vantaggi: il primo spettacolo in tre dimensioni, con tanto di occhiali appositi consegnati al pubblico, lo abbiamo organizzato a inizio anni duemila. Da quel momento, sembra passato un secolo: usiamo spesso la tecnologia video e abbiamo iniziato a sperimentare la realtà virtuale. Siamo partiti con uno spettacolo di teatro sensoriale per uno spettatore alla volta, poi abbiamo introdotto “Nel mezzo dell’Inferno”, un’esperienza di mezz’ora (ancora in repertorio) che consente di entrare nel mondo di Dante e a breve porteremo nel contesto virtuale l’attore in carne ed ossa. Con la realtà aumentata si può fare e dall’autunno ci proveremo anche noi».
Tra i tantissimi progetti che seguite, ce n’è uno, che porta il teatro in carcere: qual è l’impatto di questa forma d’arte in un ambiente simile?
«Si tratta di un mezzo formidabile, di cui i detenuti scoprono di avere profondamente bisogno. Abbiamo iniziato più di vent’anni fa, a Udine, Pordenone, Gorizia e nel carcere di alta sorveglianza di Tolmezzo. Se all’inizio ci limitavamo a portare brevi spettacoli o concerti, in seguito abbiamo introdotto laboratori (di teatro, musica, scrittura creativa), che sono andati in crescendo. Il Covid ha rappresentato una battuta d’arresto, ma dal 2023 abbiamo ripreso, e proponiamo attività che sempre di più si vanno avvicinando alla terapia. Pure gli psicologi ci chiedono “ma come fate?”. È il potere magico del teatro, rispondiamo noi».
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