Il Teatrone secondo Roberto Valerio: «Il pubblico al centro di tutti i progetti»

Il nuovo direttore artistico al Giovanni da Udine: «Vorrei capire i desideri e proporre un modo personale di fare prosa»

Gian Paolo Polesini
Roberto Valerio, direttore artistico al Giovanni da Udine
Roberto Valerio, direttore artistico al Giovanni da Udine

UDINE. Roberto Valerio — neo direttore artistico del Giovanni da Udine — beneficia di ben due prospettive teatrali: dalla platea, diciamo quella tradizionale di qualunque dirigente, e dal palcoscenico — più rara, perché Valerio, si sporca le mani anche come regista e pure come attore.

Il suo pensiero dominante è perfettamente in simbiosi con quello che poi è accaduto: «I teatri dovrebbero essere guidati dagli artisti». Già.

Stare a proprio agio dietro il sipario aiuta a capire il senso della prosa, l’importanza di una messinscena, il rispetto di un lavoro che conosci e, soprattutto, saper abbinare uno spettacolo al tuo pubblico, come un buon armocromista (adesso sono spuntati come funghi dopo anni di buio) fa con le tinte del guardaroba.

Eccoci qui, Valerio. Nello studio che per molte stagioni ha rappresentato il centro di comando di Giuseppe Bevilacqua. E siamo al primo intreccio che ci svelerà subito.

«Bevilacqua, straordinario uomo di teatro, è stato mio insegnante di storia dello spettacolo all’Accademia Silvio D’Amico. Si figuri la gioia di prendere il suo posto. Le intuizioni di Giuseppe, non avendo né tempo né scadenza, continueranno a essere il fulcro del mio programma».

Prima del secondo intreccio friulano — lei, lo ricordiamo, è nato a Roma — mi intriga conoscere le ragioni della scelta udinese.

«Nasco attore, e questo lo abbiamo appena detto citando la scuola di prosa più importante d’Italia, quindi affronto la regia, e il motivo è chiaro: proseguire un percorso di crescita che implichi esperienze multiple, da cui la partecipazione convinta al bando di concorso per il Giovanni.

Lo vinco e, per questo, ringrazio il presidente Giovanni Nistri e i consiglieri tutti, prendo un treno a da Pescara — città che ora mi fa da casa assieme alla mia compagna e ai miei due gemelli di pochi mesi — e risalgo la penisola fino a questo Nord-Est ricco di fermenti culturali che ben poche regioni vantano».

In realtà lei ha affiancato molti anni fa Mauro Avogadro alla regia di un cult, “Copenhagen”, con Umberto Orsini, Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice, cast pazzesco per un’opera che ha fatto la storia col marchio udinese del Css, fra l’altro.

«Eccome no! Un ruolo marginale, il mio, ma di grande importanza per un fresco allievo come lo ero allora. Nell’occasione conobbi Alberto Bevilacqua, fratello di Giuseppe. Il destino, forse, mi fece dare qualche morso alla città in attesa di un futuro ritorno. Vogliamo aggiungere i due spettacoli che portai al Nuovo nelle passate stagioni?

Aggiungiamoli volentieri, ci mancherebbe.

“Il gioco delle parti” di Pirandello e un Feydeau d’annata. Come vede la strada verso Udine era asfaltata da qualche lustro per un viaggio più comodo».

Qual è stata la sua priorità appena scoprì di avere il posto fisso a Udine, come direbbe Checco Zalone?

«Mettere il pubblico al centro di qualunque progetto. La mia idea è che il teatro d’arte dev’essere popolare. Non tanto vorrei proporre un modo personale di fare prosa, quanto cercare di comprendere i desideri degli spettatori friulani affinché io possa trovare la formula giusta.

Inutile, il teatro è di chi lo ama ed è giusto che il cartellone sia il più vicino possibile al gradimento degli abbonati. Altrimenti farei una stagione per me».

Possiamo chiederle a che punto è con la raccolta?

«Siamo con i contratti in mano. Non posso svelare alcunché, mi capisce, ma le assicuro che la qualità è dominante. Ho sperato di avere compagnie con tanti attori e le ho trovate.

Sa come funziona, no? I soldi scarseggiano e si tende ad allestire commedie con due o tre persone se non monologhi con l’interprete famoso. Stiamo perdendo il senso di coralità, quella scena piena e ricca di voci, bellissima da vedere e da ascoltare».

Casa teatro?

«Fondamentale. Condivido l’idea di Bevilacqua di aprire le porte del Nuovo non soltanto nei giorni di spettacolo».

Come sta di salute la prosa contemporanea?

«Non starebbe neppure male, ma gli Stabili — le cosiddette novità — le guardano con timore, preferendo il classico che assicura share».

Talvolta i capisaldi del teatro andrebbero svecchiati quel tanto. Il suo “Tartufo” di Molière (con Giuseppe Cederna e Vanessa Gravina) e ambientato nei Settanta, rappresenta perfettamente l’idea di rinnovo sagace.

«Quando il testo lo consente, perché no. Ho visto uno Shakespeare con il telefonino sul palco: ecco, ci vuole decenza e intelligenza per smontare gli immortali. Se il lavoro è fatto bene sembrerà più vicino alla nostra comprensione pur mantenendo la sua straordinaria forza».

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