Intervista a Ilaria Tuti: «Il mio ‘Risplendo non brucio’ è un romanzo sul coraggio delle scelte»

La scrittrice friulana parla in occasione dell’uscita del nuovo romanzo, edito da Longanesi. La storia di un padre e una ambientata tra la Risiera di San Sabba a Trieste, Dachau e Kransberg, durante la seconda guerra mondiale.

Laura Pigani
Esce oggi “Risplendo non brucio” , il nuovo romanzo della scrittrice friulana Una storia ambientata tra la Risiera di San Sabba a Trieste, Dachau e Kransberg
Esce oggi “Risplendo non brucio” , il nuovo romanzo della scrittrice friulana Una storia ambientata tra la Risiera di San Sabba a Trieste, Dachau e Kransberg

È meglio ignorare la verità, starsene fuori, o armarsi di coraggio per fare la cosa giusta? Una scelta che attraversa – e devasta – Johann Maria Adami e sua figlia Ada costretti, in luoghi e modi diversi, ad affrontare la barbarie della Seconda guerra mondiale. E a scendere a patti con la propria coscienza. Sono loro i protagonisti di “Risplendo non brucio”, edito da Longanesi e da oggi in libreria, l’ultimo lavoro di Ilaria Tuti, la scrittrice gemonese di “Fiori sopra l’inferno”. Un libro a metà tra romanzo storico e thriller che si sviluppa tra Trieste, che ospita la Risiera di San Sabba, l’unico lager in Italia dotato di forno crematorio, il campo di Dachau e il castello di Kransberg, in Germania.

In un’alternanza di capitoli si tratteggiano i due personaggi principali e i principi che guidano le loro azioni. Chi sono Ada e Johann?

«Si alternano i punti di vista di un padre e della figlia divisi dalla Storia. Johann Adami lo avevo già indagato anni fa in un racconto per i Gialli Mondadori e meritava un approfondimento. È un professore universitario di Traumatologia, un luminare di Anatomia a Trieste ed esperto internazionale di medicina legale. Si è opposto al regime ed è internato a Dachau. Ada, anche lei medico, è rimasta a Trieste e paga le conseguenze delle decisioni del padre, che rimprovera di aver messo davanti alla famiglia i propri principi. È sola, il marito è scomparso con i partigiani. Né il padre né la figlia conoscono le sorti dell’altro e questo alimenta paure e speranze».

Entrambi si trovano a dover affrontare grandi prove di coraggio. Fino a quanto ci si può spingere per non morire?

«Il professor Adami viene prelevato d’imperio dal campo di concentramento di Dachau da un suo ex allievo, Veil Seidel, un ufficiale delle Ss che lo porta al castello di Kransberg e gli affida un incarico: scoprire la verità che si cela dietro la morte sospetta di un soldato nazista. Si tratta di un suicidio o di un complotto alle spalle di Hitler? Johann dovrà quindi ricorrere a tutto il suo acume per risolvere l’enigma, nella speranza di salvarsi la vita, ma anche per tenere al sicuro chi più ama. Da parte sua, anche Ada è alle prese con un mistero: è alla ricerca della belva che ha inciso i denti nella carne di Margherita Gregori, figlia di una famiglia in vista amica degli Adami, e di altre donne. Gli indizi la portano alla Risera di San Sabba, dove venivano eliminati gli oppositori politici e portati gli ebrei di passaggio, diretti ad altri campi, poi nei tunnel della Kleine Berlino e a contatto con il male, lei che ha anche un segreto da proteggere...».

Padre e figlia sono dilaniati dalle scelte. Come ne escono?

«Ada, nella Trieste dell’epoca, si trova divisa tra la necessità di sopravvivere o di scendere in campo per una chiamata interiore contro il nazionalsocialismo. Alla fine si ritroverà a compiere il percorso del padre, mettendosi in gioco e rischiando la propria vita pur di non accettare la crudeltà e l’oppressione. Anche Johann deve prendere una posizione che contrasta i suoi principi: arrivare alla verità significa proteggere i suoi aguzzini. Entrambi scelgono di fare la cosa che ritengono più giusta».

Parte del romanzo è ambientato a Trieste, nel gennaio 1944, dopo l’Armistizio. Che città è?

«Trieste andava raccontata. Lì non c’era una Repubblica sociale italiana. Le autorità tedesche occupanti avevano costituito la Zona d’Operazioni Litorale Adriatico, deputata alle operazioni militari del Terzo Reich. Un’area di grandi combattimenti, come in tutte le zone di confine. Era questo il clima di una città con mille anime, si respirava quella austroungarica, quella di Costantinopoli, quella ebraica e quella slava. Un crogiolo di culture e di spinte sovversive potenti. Con un porto che era strategico. Ho voluto indagare com’era all’epoca Trieste, assediata dalle SS, con la Risiera, con il quartier generale dei nazisti in piazza Oberdan, con la “Keine Berlin”, la rete di tunnel antiaerei costruiti per la popolazione italiana con una parte riservata ai tedeschi. A un certo punto, nella parte iniziale del libro, mentre si trova nei pressi della Risera, Ada non sa se il baluginio che vede appartiene alla bicicletta o alla canna di un fucile: questo fa capire qual era la situazione».

Perché un romanzo sulla guerra?

«In “Fiore di roccia” ho raccontato il sacrificio delle donne carniche durante la prima guerra mondiale. Qui cambia la guerra, ma le macerie che lascia sono le medesime. Non mi interessava raccontare il conflitto, ma soffermarmi sulle dinamiche psicologiche delle persone che le portano a compiere determinate scelte. Non è un romanzo di grandi eroi, ma parla di persone comuni che si ritrovano immersi nel buio e devono compiere decisioni importanti, che potranno cambiare le loro vite. Alla fine di tutto, noi siamo le scelte che facciamo ogni giorno. Ha un potere salvifico, con guerre che ancora ardono, chiedersi “che cosa fare io” in quell’esperienza. La comunicazione di massa ci ha quasi reso impermeabili all’orrore e alla paura». 

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