Isonzo, fiume dalla doppia identità come i popoli senza piú confine

Mauro Daltin
Molly sconfina, borbotta lenta fino in mezzo alla Val Trenta in direzione della sorgente che a differenza di quella del Tagliamento, qui è raggiungibile solo a piedi, in venti minuti di camminata da un piccolo rifugio. Pensavamo di compiere un viaggio lungo i due grandi fiumi del Friuli Venezia Giulia e ci accorgiamo che il Tagliamento nasce in Veneto e l’Isonzo nasce in Slovenia e cambia nome. E che, aggiungiamo, un fiume tradizionalmente veneto come il Piave, nasce in Friuli. Geografie che insegnano, quelle dei fiumi, ballerine come le identità.
La sorgente è una polla d’acqua purissima ed è donna. Donna come la Soča che solo quando varca Gorizia ed entra in territorio italiano diventa fiume uomo, Isonzo. Centotrentasei chilometri attorno a cui si parlano cinque idiomi, si attraversano due stati, si mangiano i cibi più diversi, si passa dalle Alpi Giuli all’Adriatico, si attraversano i luoghi fondamentali della Grande Guerra, ponti, santuari, ossari. Il fiume è un monumento a cielo aperto che ti permette di capire la grande e la piccola storia che si sono concentrate qui, in pochi chilometri quadrati, come forse in nessun altro posto.
La parte slovena del fiume la considero il nostro Cammino di Santiago, uno dei luoghi più belli mai visti in vita mia. Dalla sorgente a Kobarid è una meraviglia. Molly si accorge della bellezza e fatica più del solito chiedendoci soste forzate.
È dentro queste pause che capiamo come il fiume qui ha carattere forte e puro, soprattutto nella parte alta dove scorre veloce bianca e verde. Alzi lo sguardo e sei circondato dal Mangart, dallo Jalovec, dal Canin. Fino a Bovec è trasparente, si lascia guardare. A volte è timida e si va a nascondere in mezzo a gole profondissime. Altre volte è violenta e rumorosa.
Sotto Bovec il fiume piano piano si allarga. La strada fila liscia e incrociamo solo furgoni e macchine con le canoe sul tettuccio. Qui l’acqua viene cavalcata, domata: si fanno sport estremi da nomi inglesi come kayak, rafting, canyoning, trekking: è pieno di olandesi, tedeschi, croati, austriaci. Qui gli italiani si vedono poco. Quanta differenza con il carnico Tagliamento.
Superiamo Bovec e puntiamo a Trnovo ob Soči. Qui la Soča si allarga, rallenta, è come se si rilassasse dopo tutta quella spericolata corsa. I cani ci possono fare il bagno, noi uomini immergere i piedi o bagnare le braccia, i gommoni navigarlo senza pericoli.
Alessandro mi parla di orsi che migrano. Io lo guardo e guardo Angelo e respiro nell’aria viziata di Molly la ricerca di un lato selvatico, ma soprattutto percepisco voglia di gostilna. Ci fermiamo poco prima di arrivare a Kobarid e mangiamo ražnjići accompagnati da una birra fresca.
Kobarid è una specie di santuario che ti ricorda la guerra dei nonni, quella dove si viveva in trincea per mesi, dove si spingevano sui monti cannoni e fucili, dove all’ordine di avanzare ti facevi il segno della croce e ti gettavi addosso alla fine.
Ci accoglie Katia Roš Livek, giornalista e conoscitrice della zona tra i due confini, italiano e sloveno, assieme a Jure Gradisnik, prima tromba dell’Orchestra della Radio di Lubiana. Ci raccontano della loro infanzia lungo il fiume, del suono naturale dell’acqua, di come la comunità conviva con il turismo. Poi la mia domanda fa calare il silenzio nella piccola sala: ma la Slovenia è Balcani? Lui mi guarda, sorride e mi risponde: per le cose tragiche e tristi no, non siamo assolutamente balcanici. Per le cose bellissime, siamo assolutamente balcanici. Katia invece si fa seria e risponde che no, la Slovenia non è Balcani, che è un’altra cosa, una terra di mezzo fatta di tante sfumature.
Un po’come il fiume, penso io. –
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