La contesa tra guelfi e ghibellini prototipo della faziosità italiana

Mario Brandolin
Firenze. Guelfi e ghibellini: quasi il prototipo di tanta astiosa, spesso violenta faziosità che ha segnato la storia d’Italia, una storia di campanilismi l’un contro l’altro armato in un paese che ha raggiunto tardi, sempre che l’abbia raggiunta, quell’unità, che invece tanto ha potuto sul piano della consapevolezza nazionale in altri paesi europei. Di “Guelfi e ghibellini” si parlerà domenica 11 alle 11 al teatro Giovanni da Udine, terzo appuntamento con il ciclo Lezioni di Storia dell’editrice Laterza dedicato alle “Guerre civili”. A illustrare un periodo così cruciale della nostra storia, e a sviscerarne il significato e la sua ombra lunga sul presente, una giovane studiosa di storia medievale, docente all’università gregoriana, sezione di Assisi, Chiara Mercuri.
«Dopo la definitiva disfatta dei ghibellini a seguito della sconfitta e morte di Manfredi sul campo di Battaglia di Benevento (1266), e conseguente cacciata dei ghibellini da Firenze – racconta Mercuri, papà e mamma friulani –, la parte guelfa vincitrice si divide in bianchi e neri. Laddove i primi rappresentano la grande finanza e la classe magnatizia, ma con grandi aperture al popolo; mentre i neri rappresentano la classe dirigente, l’antica nobiltà di sangue. Da qui una lunga serie di scontri che porterà alla fatidica notte del 5 novembre del 1301, dal momento che «i bianchi, pur di continuare a mantenere il potere, hanno emarginato i neri. Questi allora cercano alleanze al di fuori della città, nella fattispecie con Bonifacio VIII, il quale ha stretto un’alleanza mortifera con Carlo di Valois, cadetto fratello del re di Francia. Si arriva alla notte del 5 novembre del 1301, in cui i neri hanno fatto arrivare il Valois in città con oltre mille armati e hanno la meglio sui bianchi, in quello che non è più uno scontro tra fazioni, ma un vero e proprio colpo di stato».
Guelfi o ghibellini, per il Papa o per l’Impero, ma quasi mai per un diverso modo di vedere il mondo, quasi sempre e solo per opportunità e contingenza. Non grandi idealità,ma solo interessi precisi. È così? «Sì, diciamo che questi due grandi schieramenti nati per rappresentare la politica papale o imperiale, non corrispondono più agli ideali delle origini, anzi è molto interessante vedere come nel corso dei decenni si ridisegnano queste alleanze. Con spostamenti di campo davvero estremi». A esempio? «Si prenda Dante: dapprima guelfo che salutava come disgrazia l’arrivo dell’imperatore, e poi, dopo tutte queste lotte intestine, si invoca la discesa di Enrico VII, di un uomo forte, cioè, che riporti ordine e pace, anche a scapito dell’autonomia comunale, per la quale invece si era tanto battuto».
Guelfi e ghibellini, prototipo di tutte le faziosità di cui è caratterizzata la storia d’Italia. «Purtroppo continuità c’è, ma bisogna distinguere: da una parte c’è Don Camillo e Peppone, laicità contro l’asservimento alla Chiesa, tra mangiapreti e cattolici, ricollegabili però al neoguelfismo ottocentesco e arrivati sin quasi a noi. Dall’altra c’è da dire che è ovvio che quella lotta tra guelfi e ghibellini è stata l’inizio di profonde contrapposizioni, dal momento che in un paese talmente tanto diviso le autonomie comunali – che allora erano strutture all’avanguardia in tutta Europa – sono però dei poteri deboli e questo fa sí che si cerchino alleanze fuori e cosí si sono aperte le porte a francesi, spagnoli, e poi agli austriaci, a tutti per secoli, piuttosto che cercare di sviluppare una politica comune, nazionale di difesa di principi fondamentali. Quel centralismo statale che invece ha imposto delle direttrici fondamentali a tedeschi, inglesi, francesi che hanno segnato il dna di quei popoli».
Il Medioevo va tanto fa moda al cinema, nelle serie tv, nei romanzi fantasy, ma si studia sempre meno. Perché? «In genere i miei colleghi amano spiegare questo desiderio di Medioevo col fatto che è un luogo altro, molto lontano, misterioso. Io la vedo diversamente: questo è un mondo che ci affascina molto perché è stato un mondo in cui nel bene e nel male c’erano dei valori, dei principi, delle idee forti, chiare. E questo non può che affascinare in un tempo, come il nostro, di esasperato ed esasperante relativismo culturale». —
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