«La diga ha tenuto!», ma nessuno credette

Mario Blasoni racconta le concitate ore in redazione al Messaggero Veneto quando l’inviato Isi Benini segnalò la tragedia
20031006 - LONGARONE (BELLUNO) - CRO - VAJONT: LONGARONE; 40 ANNI DI RICOSTRUZIONE ECONOMICA - Una foto della diga ricostruita scattata la scorsa estate. FOLCO LANCIA/ANSA/TO
20031006 - LONGARONE (BELLUNO) - CRO - VAJONT: LONGARONE; 40 ANNI DI RICOSTRUZIONE ECONOMICA - Una foto della diga ricostruita scattata la scorsa estate. FOLCO LANCIA/ANSA/TO

Vajont, cinquant’anni dopo. Terribili ricordi su quell’assurda immagine: «Era proprio vero: la diga è rimasta in piedi!». La mole gigantesca dello sbarramento artificiale della Sade si stagliava, chiara e possente, allo sbocco della gola del Vajont nella valle del Piave. Cosí la vedemmo, il capocronista Alvise De Jeso e il sottoscritto, giovane reporter al seguito, in quell’alba livida del 10 ottobre 1963. Il Messaggero Veneto era appena uscito, in edizione straordinaria, con un titolo sbagliato: Sfondata la diga del Vajont da una valanga di fango e acqua.

E pensare che avevamo la versione giusta, ma non ne abbiamo approfittato, annunciando invece - come peraltro tutta la stampa nazionale - l’avvenuto crollo della diga causato dalla frana del monte Toc. L’esclamazione Era proprio vero! sopra riportata, si riferisce, infatti, alla telefonata dei nostri primi inviati, Isi Benini e Luciano Paolini: «Lo sbarramento non è crollato, è stato scavalcato dall’acqua». Non furono creduti, sembrava impossibile. E invece, come spiegò Benini nell’ampio servizio del giorno seguente, quell’ondata spaventosa spazzò via l’abitato di Longarone e quattro borgate di Erto uccidendo quasi duemila persone senza toccare la diga, che rimase intatta, maestoso monumento all’inutilità, non essendo riuscita a proteggere nessuno perché la morte la beffò, passandole sopra.

Cosí Benini ricostruí quell’incredibile meccanismo che verrà definito “effetto Vajont”: «Immaginate di avere tra le mani un catino colmo d’acqua e scaraventarvi dentro una quantità di terra del volume molto superiore a quello della sua capacità. Accadrà che il liquido elemento verrà proiettato con forza fuori dal proprio contenitore. Cosí è avvenuto ieri notte, alle 22.39, alla diga del Vajont, in proporzioni elevate all’ennesima potenza. La terra, una massa calcolata in quasi 300 milioni di metri cubi, l’ha buttata nel bacino, con mano spietata, il monte Toc. La diga ha resistito e l’acqua è tracimata per piombare a valle, accompagnata da un lungo, cupo boato, a seminare distruzione e morte».

La sera del 9 ottobre la prima segnalazione della tragedia era rimbalzata in redazione verso mezzanotte. Durante i giri telefonici, il cronista di turno, Paolo Schinko, parlando con i carabinieri di Claut, intuí che qualcosa di grave era successo al bacino idroelettrico della Sade. Poi arrivarono le conferme dalle prefetture di Udine (la provincia di Pordenone non esisteva ancora) e di Belluno. Partirono subito Benini, che era il numero due del giornale allora diretto da Carlo Tigoli, e Paolini.

«Fummo i primi giornalisti - ricordò poi Paolini - ad arrivare a Ponte nelle Alpi. La strada per Longarone era bloccata da una fiumana di detriti trasportati dal Piave. Lasciammo l’auto e proseguimmo a piedi approfittando di qualche passaggio su mezzi di soccorso. Arrivammo a Longarone che era ancora buio, carabinieri e genieri avanzavano con le fotoelettriche. Dov’era l’abitato, trovammo un deserto di ghiaia».

Era già mattina quando anche la “Cronaca” si mosse, puntando verso Erto. Il viaggio col capocronista De Jeso e il fotografo fu lungo e sofferto: sulla statale della Valcellina, allora stretta e tortuosa, erano frequenti i posti di blocco e le soste per far passare i soccorsi. Impressionante la vista di Erto, risparmiato dal cataclisma, ma deserto e muto come un cimitero. Le borgate lungo la strada panoramica scomparse o ridotte a pochi ruderi. Della chiesa di San Martino era rimasto soltanto il pavimento, sul quale alcune donne inginocchiate stavano pregando. Le frazioni di Spessa, Patat e Pineda cancellate, Casso solo sfiorata dall’onda, che aveva sventrato alcune case. Appena tre giorni dopo, Benini poteva scrivere: «Molti segni inducono a concludere che lo smottamento della montagna maledetta era temuto da anni, atteso da qualche settimana, previsto con matematica certezza qualche ora prima delle tragiche 22.39 di mercoledí notte».

L’esperienza-Vajont del sottoscritto proseguí a Longarone, come “secondo di bordo” con Arturo Manzano, inviato numero uno del Messaggero di quegli anni.

Era il terzo giorno dopo la catastrofe: disinfezioni anticontagio, fine di ogni speranza per i dispersi, fosse comuni. In quella spianata desolante si aggiravano ancora i parenti delle vittime alla ricerca, tra sassi e melma, di un segno che rivelasse un posto familiare, una strada, una casa. In un frenetico andirivieni di vigili del fuoco, genieri, alpini, crocerossine inglesi. Ma c’erano anche gli intrusi, i cosiddetti turisti delle sciagure, che cominciavano a calare per appagare la morbosa curiosità di vedere la morte da vicino.

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