La marcia su Ronchi e la conquista di Fiume: cosí il poeta-soldato aprì la strada al fascismo

All’alba del 12 settembre 1919 parte da Ronchi di Monfalcone una disordinata colonna militare. La compongono dei granatieri di Sardegna ribelli, che hanno disatteso gli ordini e stanno tornando da dove due settimane prima sono stati allontanati: Fiume nel golfo del Quarnaro.
Alla loro testa Gabriele D’Annunzio, il primo soldato d’Italia. All’arrivo a Fiume il comandante del corpo d’armata Gandolfo li lascia entrare in città senza colpo ferire. «Prima di far fuoco sugli altri, faccia fuoco su di me» gli dice D’Annunzio, scoprendo sul petto il distintivo dei mutilati e il nastro azzurro della medaglia d’oro al valore militare.
Chi sono costoro? E cosa fu la “marcia di Ronchi”? A un secolo di distanza appare come un passaggio importante nella storia del nostro Paese, il segno forse più evidente della disgregazione dello Stato liberale, da cui uscì la dittatura fascista. L’occupazione per sedici mesi di Fiume non può tuttavia essere ridotta a semplice anticipazione del regime mussoliniano, fu qualcosa di diverso e più complesso.
Agli inizi del Novecento Fiume è un crogiuolo di popoli e culture. È l’unico sbocco al mare del Regno d’Ungheria e il Patto di Londra, l’accordo segreto sulla base del quale l’Italia era entrata in guerra a fianco dell’Intesa, prevedeva il passaggio al Regno d’Italia del Trentino, dell’Alto Adige, di Gorizia e Trieste, Istria e Dalmazia, ma non di Fiume che non era mai stata veneziana se non per brevissimo tempo.
L’andamento della guerra scombinò gli accordi: alla sua comparve sulla scena un protagonista imprevisto, gli Stati Uniti. Il presidente americano Woodrow Wilson enunciò nel gennaio del 1918 i quattordici punti di un progetto per garantire la pace mondiale: fra di essi una «sistemazione equa dell’area balcanica» e «l’autonomia dei popoli dell’Impero austro-ungarico e dell’Impero ottomano».
Come questi principi, del tutto astratti, potessero tradursi in realizzazioni politiche condivise è il punto su cui deflagrò la bomba di Fiume. Il censimento di fine 1918 registrava su 45 mila abitanti della città, oltre il 60 per cento dei quali italiani.
Nei giorni della fine del conflitto il locale Consiglio nazionale italiano proclamò l’autodeterminazione e l’annessione della città al Regno d’Italia. Seguirono un’occupazione serbo-croata e quindi l’entrata in città di 13 mila militari italiani, sotto gli ordini di un Comando militare interalleato. Un’occupazione che spesso degenerò in violenza e che spinse al ritiro da parte del governo dei militari italiani, parte dei quali si fermarono però a Ronchi, a pochi chilometri dal confine.
Qui li raggiunse Gabriele D’Annunzio, che li riportò a Fiume, per protesta contro le potenze alleate in riunione a Parigi per il trattato di pace e le loro decisioni che riducevano la conclusione del conflitto, per l’Italia, ad una “vittoria mutilata”. La presa della città, in spregio ai comandi che venivano da Roma, galvanizzò la destra italiana: in poche settimane defezionarono dal Regio esercito e si diressero a Fiume cinquemila uomini. Da Fiume, quotidianamente, D’Annunzio lanciava i suoi strali contro l’imbelle governo di Roma.
Tra i “legionari” fiumani c’era di tutto: monarchici, radicali, arditi-futuristi che si facevano notare per le loro provocazioni, uomini d’ordine, sindacalisti rivoluzionari, anarchici di destra. Le legionarie erano ben 279, molte dell’alta borghesia e della nobiltà, eccitate dall’atmosfera di libertà e passione che alimentava l’impresa. Il divorzio in città era consentito: vi si recò per liberarsi dal giogo coniugale, tra gli altri, Guglielmo Marconi. L’omosessualità era tollerata, come testimoniano i diari dello scrittore Giovanni Comisso. Ottomila legionari generavano un indotto postribolare eccezionale. Non mancavano, naturalmente, i cappellani militari, che confortavano i legionari.
L’ideologia prevalente del fiumanesimo era, tuttavia, quella militarista, l’arditismo. Tutto era caserma, esercitazioni, cameratismo: «Vivo coi soldati semplici, semplice soldato», scriveva D’Annunzio, che non rinunciò però mai alle sue costose abitudini e debolezze. Fiume fu un laboratorio dell’applicazione alle masse dell’immaginario simbolico che sarebbe passato pari pari al fascismo: il saluto romano, i termini “legionario”, “duce” e tutta la paccottiglia che si rifaceva alla romanità e alla grandezza di Roma imperiale, il grido greco “eia eia alalà”, il “me ne frego” e così via.
Il rapporto tra Mussolini e l’impresa di Fiume fu sempre incerto. Il futuro duce appoggiò D’Annunzio ma diffidava di un’iniziativa che nasceva senza l’apporto diretto dei fascisti.
Il Popolo d’Italia raccolse per Fiume occupata 3 milioni di lire ma ne versò solo 800 mila, trattenendo il resto per i fasci milanesi. Infine, nel novembre del 1920, venne firmato il trattato di Rapallo: Gorizia, Trieste, l’intera Istria, Zara e alcune isole dalmate diventavano italiane, nella città sul Quarnaro si istituiva lo Stato Libero di Fiume. Si trattava di una sistemazione più che accettabile, per parte italiana, che D’Annunzio e i legionari fiumani non accettarono, preparando la strada per la loro sconfitta.
La vigilia di Natale del 1920 partì l’attacco dell’esercito e della marina regia italiana contro gli insorti di Fiume. Per evitare un bagno di sangue, il comandante, che non si era mai fatto vedere sulla linea di combattimento, si arrese. Si chiudeva così la “marcia di Ronchi”, iniziava la subordinazione di D’Annunzio a Mussolini, si preparavano giorni ancor più bui.
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