La politica mondiale del dopoguerra e i molti nodi insoluti della questione Trieste

Tra le macerie del secondo conflitto mondiale una delle aree di crisi destinata ad avere la più complicata risoluzione fu Trieste. La doppia, quasi contemporanea, occupazione della città da parte delle forze jugoslave e neozelandesi nel maggio 1945 fu risolta con il ritiro degli jugoslavi dopo 40 giorni. Nel settembre 1947 entrò quindi in vigore il Trattato di pace con la creazione del Territorio Libero di Trieste (TLT), diviso in una zona A sotto il controllo alleato che andava da Duino a Muggia, e una zona B sotto il controllo jugoslavo che si estendeva a sud di questa fino a Cittanova. Nel complesso 370 mila abitanti, di cui 270 mila italiani, 80 mila sloveni e 3 mila croati: solo un sesto dei quali nella parte jugoslava.
Al TLT, uno dei simboli della Guerra fredda, è stata dedicata nel tempo una copiosa messe di saggi storici. La desecretazione degli archivi delle repubbliche post-jugoslave ha recentemente messo a disposizione materiali inediti, sui quali gli studiosi hanno però avuto ritrosia a immergersi: gli studiosi locali per scarso interesse alle vicende diplomatiche dell’era socialista, da parte occidentale per ostacoli di carattere linguistico.
Alla vicenda di Trieste tra 1945 e 1954 si è invece dedicato il giovane storico udinese Federico Tenca Montini che, impadronitosi del serbo, del croato e dello sloveno, ha scavato per anni inesplorati fondi d’archivio. Il frutto delle sue ricerche è il volume edito in questi giorni da Il Mulino, promosso dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione e con il sostegno della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, intitolato “La Jugoslavia e la questione di Trieste, 1945-1954!. Un saggio che secondo Jože Pirjevec «chiude in modo definitivo la questione di Trieste».
La prospettiva di Tenca Montini è di comprendere attraverso la documentazione diplomatica e politica jugoslava quale sia stata la strategia del regime di Tito su Trieste. Così facendo, lo storico udinese riesce a ordinare, se non a dipanare, i molti fili della politica mondiale del dopoguerra che si strinsero sul nodo della Venezia Giulia. A cominciare dalle ripetute delusioni che accompagnarono la ritirata delle forze jugoslave nel giugno 1945 e i successivi accordi di Belgrado e Duino che portarono l’esercito di liberazione jugoslavo ad accettare di arretrare sotto la “linea Morgan”. Sulla destinazione di Trieste e della Venezia Giulia si esercitarono tra 1945 e 1947 le diplomazie delle potenze vincitrici: quella sovietica avrebbe assegnato a Tito importanti territori addirittura in Friuli, quella anglo-americana avrebbe italianizzato buona parte della costa dell’Istria mentre quella francese proponeva di chiudere nei pressi di Cittanova il confine d’Italia.
Contrari a risolvere la questione con un referendum erano sia gli jugoslavi che gli italiani: De Gasperi sapeva bene che ciò avrebbe costituito un pericoloso precedente per l’Alto Adige. Così,alla vigilia della Conferenza di pace di Parigi nel 1946, gli alleati occidentali presero l’iniziativa proponendo la creazione del TLT, sotto la tutela delle Nazioni Unite: una soluzione che Molotov per l’Urss si risolse ad accettare e che mandò in soffitta l’accordo tra Tito e Togliatti per lo scambio tra Trieste e Gorizia. Una soluzione, questa, sgradita anche a Nenni, secondo cui l’Italia avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa che le era già stato accordato (Gorizia) per qualcosa di cui la Jugoslava non disponeva (Trieste).
Alla firma del Trattato di Pace nel 1947 e alla creazione del TLT non seguì però la nomina del suo governatore: il Consiglio di sicurezza dell’Onu non si mise mai d’accordo su un nome gradito a tutti e il TLT rimase di fatto un progetto incompiuto. Nel frattempo gli Stati Uniti avevano lanciato il Piano Marshall e nel febbraio 1948 il colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia fece calare la cortina di ferro sull’Europa: da questione territoriale o di confine, Trieste divenne un «capitale simbolico» (Tenca Montini) da sfruttare per la politica interna, come fece la Dc nelle elezioni dell’aprile 1948, o nel gioco della politica internazionale.
Il 28 giugno 1948 l’espulsione della Jugoslavia di Tito dal Cominform, accusata di deviazioni ideologiche e soprattutto di una spregiudicata politica estera, aprì la seconda fase del TLT. Ad ovest vi erano tutti gli interessi a «tenere Tito a galla» in funzione antisovietica e gli americani iniziarono a foraggiarlo; a Mosca si considerava la questione ormai secondaria, soprattutto dopo lo scoppio della guerra di Corea (1950). Ma l’elezione del repubblicano Eisenhower alla Casa Bianca e la morte di Stalin nel marzo 1953 rimescolarono ancora una volta le carte.
Erano maturi i tempi per la diplomazia occidentale per premere sull’acceleratore e sciogliere il nodo Trieste. Il Memorandum di Londra (5 ottobre 1954) sancì la divisione del TLT lungo la “linea Morgan”, con il contentino di pochi villaggi che passarono agli jugoslavi. Dalla zona B riprese in modo decisivo l’esodo degli italiani, già iniziato nel 1945.
Poche settimane dopo la firma del Memorandum, Tito partiva per un viaggio in nave in India e in Birmania: gli interessavano i Paesi in via di sviluppo che si affrancavano dal colonialismo, con cui avrebbe costruito il Movimento dei non allineati, non più San Giusto e il Faro della lanterna. —
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