La provincia friulana diventa il set per “Billy”: esordio alla regia di Emilia Mazzacurati

Girato fra Campoformido e lo Stella dalla figlia del cineasta Carlo. Incontri a Udine e Pordenone

Elisa Grando

L’amore per i personaggi, quell’empatia delicata per le umane fragilità e un modo unico di raccontare la provincia come spazio dell’anima: nel primo film di Emilia Mazzacurati c’è molto del cinema che ha respirato fin da bambina. Emilia è figlia del grande regista Carlo Mazzacurati, scomparso nel 2014 quando lei aveva solo 18 anni, e ora debutta a sua volta dietro la macchina da presa con il film “Billy”, nei cinema da oggi, girato tutto in provincia di Udine.

La storia è quella del diciannovenne Billy, interpretato da Matteo Giuggioli, che forse non è mai davvero cresciuto. Attorno a lui un gruppo di adulti rimasti, al contrario, un po’ bambini: la mamma interpretata da Carla Signoris, un rocker che fugge dalle sue responsabilità (Alessandro Gassmann), un pompiere che vive in una casetta sul fiume (Giuseppe Battiston). Tutti alla ricerca di un diverso equilibrio nella vita. Il film ha richiesto quattro settimane di riprese, molte delle quali in notturna, a Villa Primavera a Campoformido ma anche su un tratto del fiume Stella, a Moimacco, a Cividale e Basiliano.

La regista tornerà per presentarlo in regione: per ora le date confermate sono il 7 giugno al Visionario di Udine (alle 20.15) e a Cinemazero di Pordenone e il giorno dopo al Giotto di Trieste. La spinta verso la regia non è stata immediata: Emilia ha studiato Storia dell’Arte e «poi mi è venuta voglia di fare quello che facevo di nascosto, cioè scrivere. Mi sono diplomata alla scuola Holden in sceneggiatura».

Come nasce la storia di “Billy”?

«Da un mix di esperienze personali e dal fatto di credere che quando siamo bambini siamo veramente noi stessi, mentre da adulti cerchiamo di ritrovare lo spirito che ci contraddistingueva. È una storia molto corale che parte in particolare da Billy e sua madre Regina, con il loro rapporto all’inverso di figlio adulto e mamma bambina».

Perché Villa Primavera era la location giusta per il film?

«È un quartiere di periferia che è stato molto benestante negli anni ’90 e che oggi le famiglie fanno quasi fatica a mantenere. È stata una grande fortuna trovarlo: l’ha indicato la Friuli Venezia Giulia Film Commission alla casa di produzione, Jole Film. Era un ambiente molto simile a come me lo ero immaginato, una periferia di provincia del Nord Italia, con le villette adiacenti, i viali, un microcosmo di un antico fasto e oggi un po’ dimenticato che raccontava molto dello sviluppo dei personaggi. Poi intorno ci sono dei luoghi quasi ai confini di questa storia, come un supermercato che abbiamo girato a Corno di Rosazzo, o il fiume Stella».

Nel film ci sono dei bambini che paiono molto adulti, e degli adulti più bambini…

«Infatti mi piace definirlo un “coming of age al contrario”: di solito il racconto di formazione narra della perdita dell’innocenza, qui mi pare che tutti nel corso della storia cerchino di riacquisire fiducia nella vita. Ci sono tutte le età, ma i bambini più piccoli sembrano avere le idee più chiare. Billy, per esempio, ha fatto quasi un salto a piè pari dall’adolescenza all’età adulta e infatti frequenta solo bambini di 8-10 anni».

La provincia friulana che vediamo è quasi irriconoscibile, con colori molto vividi, neon che spuntano dal buio della notte. E nel film convivono smartphone e audiocassette. Perché ha scelto di raccontare un tempo e uno spazio sospesi?

«La cittadina creata è fittizia, ma volevo che, nella mente di chi guarda questo film, ci fosse una geografia abbastanza chiara di dove i personaggi si stanno muovendo. E volevo che il film avesse non il ritmo della realtà ma della memoria, in cui dei momenti brevissimi ce li ricordiamo come molto lunghi e momenti infiniti ci passano di mente. Ogni personaggio sembra fermo in una propria epoca, che sia stata di gloria o di tristezza, e da questo loop fanno fatica a muoversi».

Cosa pensa di aver assorbito di più del cinema di suo padre?

«Un mix di cose private, personali e altre proprie del suo modo di fare cinema. Credo che questo coincida con un certo tipo di amore e di propensione per la provincia, per luoghi che sembrano desolati e piatti e invece non lo sono affatto. E anche un amore per l’umanità di questi personaggi, senza mai la voglia di giudicarli. Papà era un grande raccontatore: mi ha lasciato la voglia di immaginare, di avere dei mondi paralleli anche quando la realtà è un po’ meno facile».

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