La rotta del terrore: i 123 treni che dal Fvg portarono gli ebrei nei lager d’Europa

Luciano Patat racconta la deportazione dal carcere di Gorizia. Nel saggio oltre tremila schede biografiche delle vittime

Andrea Zannini

Il Litorale Adriatico, cioè la zona di operazioni che comprendeva le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola e Fiume fu, tra settembre 1943 e maggio 1945, di fatto, annessa al Terzo Reich. Vi si pianificò quel sistema di repressione e deportazione che il Nuovo Ordine hitleriano sperimentava in tutta Europa, e di cui i campi di concentramento, lavoro e sterminio erano i gangli nodali, i vettori erano i treni di deportazione e i luoghi decentrati di raccolta erano le carceri. Lo storico Luciano Patat ha ricostruito tale filiera del terrore a partire da uno dei suoi terminali periferici, il carcere di Gorizia, e i 123 convogli che, partendo da Trieste e passando anche per Udine, portarono detenute e detenuti nell’Europa centrale. Il suo I treni per il lager. La deportazione dal carcere di Gorizia, recentemente edito dall’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione (che sarà presentato domani alle 18.30, all’auditorium di Ronchi dei Legionari) è una ricostruzione puntigliosa e dunque agghiacciante di questo sistema. Un lavoro minuzioso di ricostruzione storica durato anni, condotto su fonti di prima mano: una vera e propria «anagrafe della deportazione», così Mimmo Franzinelli nell’Introduzione, che restituisce un nome, una carta di identità e una storia a migliaia di vittime.

Dal 1° settembre 1943 al 30 aprile 1945 vennero rinchiuse nel carcere di Gorizia 7.061 persone, nella grande maggioranza arrestate per motivi “di sicurezza”. Ad operare gli arresti furono quasi sempre gli uomini del Servizio di Sicurezza delle SS, oppure gli agenti della Questura e i carabinieri, o ancora le formazioni collaborazioniste quali la X Mas. Furono ad esempio i poliziotti ad effettuare i primi arresti tra i 27 ebrei goriziani che saranno prima incarcerati e poi deportati nel dicembre 1943 ad Auschwitz, dove in larga parte non passeranno la prima selezione e verranno immediatamente avviati alle camere a gas.

Circa la metà degli arrestati fu tradotta in Germania, in maggioranza nei campi di concentramento, ma in buona parte anche alle destinazioni di lavoro coatto. Provenivano per due terzi dai Comuni oggi appartenenti alla Repubblica di Slovenia, dove il movimento resistenziale aveva preso corpo quasi subito dopo l’annessione all’Italia della Provincia di Lubiana, e dove la repressione nazi-fascista fu feroce. Per il resto, dalle tre province del Friuli Venezia Giulia. Bastava che fosse ritrovata una minima traccia di collegamento ad un partigiano per essere rinchiusi nel carcere di via Barzellini, quindi brutalmente interrogati se non torturati, e infine avviati verso Dachau, Buchenwald, Mathausen e Flossenbürg, gli uomini, mentre le donne ad Auschwitz, Ravensbrück e Bergen Belsen.

Ma diciotto detenuti furono trasferiti nel campo di detenzione di polizia della Risiera di San Sabba, dove furono uccisi e bruciati nel forno crematorio, e 55 condannati a morte e direttamente fucilati. Si trattava di partigiani della Garibaldi, dell’Esercito di liberazione jugoslavo, e di tre disertori “mongoli”, cioè collaborazionisti caucasici. Un altro piccolo gruppo fu tradotto nelle carceri di rigore tedesche: tra di essi due studenti friulani, Arturo Toso e Loris Fortuna.

L’aspetto meno noto del sistema della deportazione è quello del supporto alla produzione, che il libro mette in risalto. Gli internati nei Lager, finché erano in grado di reggersi in piedi, erano impiegati in fabbriche, miniere e lavorazioni diverse. Poi vi era la galassia del lavoro coatto. Caricati sugli stessi treni diretti ai campi di concentramento, uomini e donne precedentemente selezionati venivano impiegati in centinaia di aziende agricole e industriali carinziane e bavaresi, in condizioni di lavoro e vita assai dure, e con il pericolo di essere in ogni momento trasferiti in un Lager.

La puntuale ricostruzione del sistema che partiva dal carcere di Gorizia è corredata da una trentina di testimonianze dirette di internati e lavoratori coatti che restituiscono, a fianco della dimensione anagrafica e numerica della deportazione, il suo dramma umano.

Oltre alla ricostruzione cronologica mensile della deportazione, il volume assegna, in oltre tremila schede biografiche, un nome e un’identità alle vittime di questo sistema. Un libro che è «il più efficace antidoto alle riaffioranti tendenze negazioniste o minimaliste sui crimini del nazifascismo».

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