La storia d’amore di “Return to dust” arriva in Italia grazie alla Tucker
Un film asiatico mancava raramente ai festival griffati. E dico Venezia, Cannes e Berlino. Una ventina d’anni fa averlo in cartellone risultava essere più una provocazione che una scelta ponderata. Tra americani, francesi, italiani, e a qualche sporadico iraniano, un cinese o un coreano contribuivano alla necessaria comprensione di mondi inarrivabili, creando quell’atmosfera di un certo glamour esotico. Anche se il sospetto che loro ci mostrassero ciò che volevano far risaltare l’abbiamo sempre avuto. Dalla Cina, poi, l’export cinematografico subiva controlli estenuanti e nulla di scomodo attraversava la frontiera.
Non che ora i registi si possano permettere chissà quali libertà politiche, ma la circolazione di prodotti orientali si è intensificata e anche nelle sale delle nostre città l’incontro è possibile.
Non per rimarcare un’eccellenza friulana, ma l’Oscar 2022 al giapponese “Drive my car” ha premiato anche il coraggio della Tucker film (dal 2008 una società di distribuzione fondata da Cec e da Cinemazero, con un inizio italiano: “Rumore bianco” di Alberto Fasulo) che da oltre un decennio vigila sulle proposte in arrivo dal Continente più popolato al mondo con oltre cinque miliardi di persone.
Questo pomeriggio al Far East, alle 16.50, ci sarà l’occasione unica di vedere in anteprima una pellicola cinese -“Return to dust” - passata in concorso alla Berlinale di febbraio e che da settembre arriverà nei cinema italiani graziealla Tucker film. E questa è davvero una notizia fresca di giornata.
«Una storia – spiega Thomas Bertacche – che crea una forte empatia col pubblico e della quale ci siamo innamorati. Berlino è senza dubbio il più votato alle sperimentazioni fra i tre giganti europei dell’esposizione cinematografica. E proprio in Germania acquistammo “Il gioco del destino e della fantasia” di Hamaguchi, lo stesso cineasta nipponico appena premiato con la statuetta a Los Angeles per il miglior film straniero, appunto “Drive my car”, negando di fatto il bis a Paolo Sorrentino con “È stata la mano di Dio”».
La pellicola del giovane regista cinese di Gansu Li Ruijun, “Return to dust”, è storicamente interessante in quanto nel 2010 l’emigrazione del popolo verso i centri urbani trasformò la campagna in una landa pressoché deserta, se il concetto di deserto si possa applicare alla Cina. Ci siamo capiti, spero.
Anche i due protagonisti fanno parte di un mondo decisamente obsoleto, dove la rassegnazione apparteneva a un modello esistenziale, quelli che s’inchinavano accettando il destino. Ed è questo il mood di due emarginati dalle rispettive famiglie costretti a sposarsi nello spaesamento e nell’imbarazzo. Lei claudicante e affetta da una incontinenza cronica e lui un contadino con un solo asino in dote.
E qui ci sta tutta la differenza di pensiero fra un occidentale e un orientale. Li Ruijun invece di relegare i suoi personaggi in un girone dantesco, come avremmo fatto noi - i due verranno spesso sfrattati e ne passeranno di ogni, poveretti - crea una sorta di limbo dove chi sa accontentarsi sta bene, non serve il miracolo, basta la consapevolezza che due anime insieme possano vincere. Una storia d’amore improbabile e proprio per questo arriva al cuore dello spettatore con tutte quelle sagge indicazioni orientali di saper accettare ciò che la vita ci riserva, anche quando si dimentica di guardarci in faccia.
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