La tragica ritirata del ’43: decimati da freddo e stenti

Gli alpini del generale Nasci riuscirono a rompere l’accerchiamento e a fuggire Sul campo 84 mila morti, 30 mila feriti e 70 mila uccisi poi da freddo e stenti

Una lunga tragedia. Che sembra non avere mai fine. È forse questo il senso più vero con il quale gli italiani ricordano le drammatiche vicende della guerra che tra il 1941 e il 1943 furono mandati a combattere in Unione Sovietica.

Ed è sicuramente per questa ragione che la notizia del ritrovamento nella steppa russa, nei pressi di Kirov, di una immensa fossa comune con migliaia di scheletri di soldati, vittime di quello sciagurato conflitto, ha suscitato sentimenti profondi e coinvolgenti.

Eppure da quella infausta storia sono passati più di settanta anni, che però non sono serviti a cancellare pene, a spegnere tormenti, a placare dolore.

Certo il tempo non è passato invano. E oggi, l’ottica con la quale si guarda a quella disgraziata guerra e alle sue vittime è ben diversa da quella dell’esasperazione antirussa che venne orchestrata al fine di lucrare vantaggi elettorali e anche per nascondere le responsabilità di quel calvario di dolore che il regime fascista impose agli italiani.

Andò cosí per anni, dal ritorno della pace almeno fino al Cinquanta inoltrato, quando lo strazio e le pene di migliaia di famiglie che avevano perso i loro cari nella campagna di Russia venivano rinnovati per mettere in difficoltà il partito che nel nome, nel simbolo, nella cultura e nella pratica ostentava la sua appartenenza allo schieramento dominato dall’Unione Sovietica.

Oratori, spesso di non eccelso livello, sapevano bene che un’evocazione dei soldati dispersi in Russia avrebbe trovato un uditorio pronto a commuoversi e incuranti delle ferite che contribuivano a esacerbare, non si trattenevano dal pronunciare frasi che straziavano i cuori e lasciavano capire che solo la malvagità dei comunisti russi e dei loro complici italiani, impediva il ritorno in patria di migliaia di soldati che erano stati fatti prigionieri durante la ritirata.

Come faceva intendere un manifesto affisso per le elezioni del 1948: era per volontà del tiranno Stalin e del suo servo italiano Togliatti se per decine di migliaia di italiani la guerra di Russia si era rivelata una immane tragedia.

Sicuramente la più grave tragedia bellica vissuta dai nostri soldati. Le cifre anche se discordanti sono eloquenti. Decisa da Mussolini, che intendeva recare il contributo italiano alla operazione Barbarossa, scatenata da Hitler, e iniziata nel giugno del 1941 la campagna di Russia vide impegnate tre divisioni di fanteria, riunite nel Csir, che vennero condotte nell’area del Don, con compiti di copertura delle truppe tedesche.

Nel complesso si trattava di 62 mila uomini, che diventarono 230 mila quando il Csir si trasforma nell’Armir e viene mobilitata la Divisione Alpina della quale fanno parte la Julia, comandata dal generale Ricagno, la Tridentina comandata dal generale Reverberi, e la Cunense agli ordini del generale Battisti. In un primo momento gli alpini avrebbero dovuto essere impiegati sul Caucaso, che era il loro terreno congeniale, ma le esigenze strategiche li costrinsero a combattere nella steppa, ma anche in quella situazione seppero farsi onore.

Alle truppe italiane venne affidata la difesa di un lungo fronte sul Don e contro le loro posizioni mosse la prima controffensiva sovietica dell’agosto 1942 che, secondo i piani, doveva allentare la pressione su Stalingrado.

È questa la controffensiva nella quale i sovietici mettono in campo i terribili carri armati T 34, del peso di 30 tonnellate, contro i quali i nostri, le “scatolette di latta” del peso di 3 tonnellate, non avevano scampo e nulla potevano i pezzi anticarro.

Già in questa prima controffensiva vengono a nudo le carenze dell’esercito italiano: carenze di mezzi, assolutamente inadeguati, ma anche carenze di comandi, che provocano uno sbandamento nelle truppe culminato con il disordinato ripiegamento della divisione di fanteria Sforzesca.

È di fronte a queste scene di disorganizzazione che si verificano le prime manifestazioni di disprezzo dei tedeschi nei confronti degli italiani, che si tradurranno presto in reciproche recriminazioni e sfoceranno in vere e proprie aggressioni.

Alla prima controffensiva russa seguono mesi di relativa calma, mentre infuria la battaglia per Stalingrado. Il fronte del Don ne risente direttamente perché è da lì che i tedeschi cercano di recare aiuti all’armata che è accerchiata. Per fiaccare questi tentativi i russi danno il via all’operazione Urano che inaugura la controffensiva dell’inverno 1942. Un mese più tardi nuova offensiva russa contro il fronte italiano che cede con la caotica ritirata della divisione Ravenna e il ripiegamento della Cosseria.

Ormai le sorti della guerra sono ribaltate: i russi attaccano e l’Asse si difende. Ma è inverno e in Russia le condizioni di vita per i soldati sono proibitive. Privi di indumenti adeguati, di rifornimenti alimentari i nostri soldati oppongono una resistenza che obbligherà anche i tedeschi a ricredersi.

Il cedimento del fronte apre falle nello schieramento con il rischio di finire accerchiati dai soldati dell’Armata rossa. È allora, nella notte del 18 gennaio 1943, che il generale Nasci, comandante della Divisione Alpina ordina il ripiegamento.

Ha inizio la tragica ritirata nella neve, sotto i continui attacchi del nemico che impegna gli alpini in durissime battaglie: a Varvarovka e poi a Nicolaewka dove gli italiani riescono a rompere l’accerchiamento e a trovare una via di scampo. Era il 26 gennaio 1943, dal giorno dell’inizio della campagna di Russia erano passati meno di 600 giorni. Quella tragica guerra, voluta per dimostrare la fedeltà all’alleato tedesco, era costata 84 mila uomini, tra morti e dispersi e circa 30 mila feriti e congelati.

Il contingente alpino perse il 60 per cento degli effettivi. Circa 70 mila furono i soldati italiani fatti prigionieri durante la ritirata. La gran parte di loro morì di stenti, di fame, di malattie e non riuscì neppure a raggiungere i campi di internamento, dove li attendevano condizioni disumane.

I soldati che riuscirono a tornare in Italia, nel marzo del 1943, trovarono un paese piegato dalla guerra, in preda allo sconforto. In molti, memori delle prepotenze subite dai tedeschi, presero posto nella Resistenza combatterono per una Nuova Italia. È questa l’Italia che si appresta a accogliere con i sentimenti dell’amore materno le salme dei suoi figli che tornano dalla Russia per riposare nella pace dei cuori sotto il nostro bel cielo.

*Professore ordinario di storia contemporanea all'università di Udine

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