L’avventura nel deserto di ghiaccio: l’impresa friulana al Polo Sud nel ’68

Geologo bolognese, ma di madre del Comelico, signore elegante dagli occhi azzurri come il ghiaccio, Marcello Manzoni, classe 1940, oggi vive nel centro di Udine, dove si è trasferito negli anni Novanta per ragioni accademiche. Ma Manzoni è anche testimonianza vivente della prima spedizione italiana al continente del Polo Sud nel 1968, impresa compiuta insieme al grande alpinista friulano Ignazio Piussi.
Nel suo racconto regala quelle sensazione provate durante l’estate polare, l’esperienza che assieme alle altre attività di esploratore in Antartide gli è valsa la medaglia d’Oro del Club Alpino Italiano e l’Ambrogino d’Oro del Comune di Milano.
È uno dei “Friulani in Antartide”, protagonista dell’omonima mostra allestita alla galleria Tina Modotti a Udine, al momento sospesa in rispetto alle norme contenute nel Decreto del governo, ma che sarà possibile visitare in seguito visto che la sua permanenza nell’ex mercato del pesce sarà prorogata oltre la data di chiusura prevista per il 26 marzo.
Una rassegna ricca di immagini provenienti dall’archivio di Ardito Desio, appena giunte in deposito al Museo friulano di storia naturale, che ha allestito l’esposizione. E altrettanto materiale è stato fornito dal geologo udinese.
Quella storica spedizione venne organizzata dal Cai e dal Cnr. Da scienziato, Manzoni si è anche occupato dei negoziati per l’ingresso dell’Italia nel “Trattato Antartico”, avvenuto nel 1981 e finalizzato alla definizione dell’utilizzo del territorio polare.
L’interesse italiano per il Polo Sud risale alla prima metà dell’Ottocento e nel Novecento è stato rinvigorito non soltanto dalle aspirazioni scientifiche ma anche dal carattere nazionalistico, a volte scomposte, come quando, ricorda Manzoni, «negli atti parlamentari si cita la grandissima impresa degli italiani in Atlantide».
Insomma si sapeva ben poco del Polo Sud, e forse non si conosce moltissimo anche al giorno d’oggi. Chi ne sapeva di più era il triestino Felice Benuzzi, che agì da diplomatico per portare a casa quell’importante trattato. Benuzzi che divenne famoso nel mondo per il suo libro “Fuga sul Kenya, nel quale raccontò la scalata di Punta Lenana sul monte Kenya nel 1943 fuggendo da un campo di prigionia inglese. Piantata in vetta la bandiera italiana, si riconsegnò al campo. «Benuzzi era un uomo straordinario, sono felice di aver collaborato con lui e di aver contribuito alla sua biografia scritta da Rory Steele, “Il cuore e l’abisso”», ci tiene a sottolineare Manzoni.
A gettare le basi di quell’avventura del 1968 era stato Ardito Desio. «La nostra impresa antartica nasce dall’amicizia tra Desio, capo della spedizione italiana che nel 1954 conquistò la vetta del K2, ed Edmund Hillary, neozelandese primo scalatore dell’Everest», comincia a raccontare Manzoni.
È così che nel dicembre del 1968, per ventitré giorni, lui e Ignazio Piussi si spingono nei territori inospitali e inesplorati dell’entroterra antartico. Un’esplorazione fisica e mentale fatta di sfide, timori e soddisfazioni in condizioni meteorologiche proibitive, narrata con densità di particolari e in prima persona da entrambi nel libro “Zingari in Antartide”, che dal 2012 continua a essere ristampato.
Quali sono state le sue prime impressioni vedendo l’Antartide?
«Dall’alto – racconta il geologo –, arrivandoci in aereo, i ghiacci marini si affacciano sull’acqua e si fanno sempre più fitti. Entrando nella Terra Vittoria, che è la Catena Transantartica, l’impressione è di essere su un altro pianeta: dalla spessa calotta polare che ricopre il continente, emergono soltanto le vette delle montagne, come arcipelaghi in un mare di ghiaccio. Una volta che si è là, però, non è molto diverso dall’essere sulle Alpi in inverno, circondati dalla neve e da una luce fortissima».
Com’è stato condividere l’esperienza con un mito dell’alpinismo come Ignazio Piussi?
«Ci incontrammo per la prima volta all’aeroporto in partenza per l’Antartide, dopodiché abbiamo stretto un’amicizia saldissima, come capita a molti alpinisti, ci siamo legati per la pelle. Oltre a essere uno scalatore eccelso, un uomo di una robustezza straordinaria, Ignazio aveva una curiosità intellettuale e una sensibilità come pochi».
Qual è l’importanza di studiare l’Antartide?
«L’Antartide è il motore del clima. La massa di ghiaccio antartico esiste da 40 milioni di anni, è un ambiente stabile. Se ne studiano le glaciazioni, il geomagnetismo, l’età dei ghiacci, le influenze del clima antartico su quello globale. Le conoscenze antartiche erano all’avanguardia già negli anni Settanta quando scattarono i primi allarmi climatici. Fu poi con la scoperta del buco dell’ozono, formatosi sopra l’Antartide, che si cominciò a parlare di riscaldamento climatico, fenomeno a esso direttamente correlato».
Nel 1968 avete svolto i primi studi sul clima, quando ancora non c’era la percezione della crisi attuale. Quanto è grave la situazione oggi?
«Climaticamente parlando possiamo affermare che si tratta di una vera catastrofe. In duecento anni abbiamo sottratto al sistema l’energia che è stata conservata sotto forma di fossili per centinaia di milioni di anni. Ora viviamo un periodo di accelerazione drammatica dei fenomeni e la situazione può precipitare di colpo, il problema è che non si tratta più di cambiamenti graduali».
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