Le ceramiche di Luciano Ceschia che raccontano il ciclo delle stagioni

Isabella Reale

Nella scheda di autopresentazione destinata all’archivio storico degli artisti friulani presso la biblioteca dei Musei di Udine, Luciano Ceschia si dichiara e si firma tout court “ceramista”: l’occasione è l’ingresso nel 1961 nelle collezioni civiche della ceramica greificata Una lapide per la Resistenza: partigiani trucidati, preludio significativo alla sua partecipazione alla XXXI Biennale di Venezia (1962), quando con la “Grande Porta di Hiroshima” si guadagnò il primo premio del ministero dell’Industria e Commercio, rivelando la sua arte plastica, innovativa nello stesso contesto espositivo veneziano. Una personalità dunque che, a quasi 30 anni dalla sua scomparsa, anche se oggi in parte avvolta dall’oblio (e non è la sola tra i tanti valenti artisti friulani) non poteva sfuggire all’attenzione del parco sculture aperto dai Copetti in quel di Leproso, nel contesto delle loro sistematiche esplorazioni della scultura italiana del secondo novecento, e che ora è oggetto di un’esposizione a Udine, in via Paolo Sarpi che sarà inaugurata oggi e resterà aperta fino al 7 aprile.

E ripercorrendo l’intenso percorso artistico di Ceschia, in una rilettura che possa superare i limiti della fascinazione della sua spiccata personalità di cantore originale della sua terra natale, ben alimentata dalla cerchia delle sue frequentazioni letterarie, è proprio nel rapporto con la ceramica che troviamo il significato del suo approccio alla modellazione. Da qui la significativa presenza in mostra di ceramiche dei primi anni cinquanta, teste in terracotta o pannelli con scene di caccia, gruppi di zingari, famiglie di contadini e carri da fieno, che hanno come protagonisti i cavalli, i cinghiali squartati, o singole figure di animali. Questo piccolo atavico mondo contadino legato alla terra, al ciclo delle stagioni, primo tramite di un immaginario poetico di più interiore evocazione fantastica, nasce dal suo energico e vitalistico impastare e modellare la creta, non per domarla in levigatezze formali e morbidi profili, ma per esaltarne l’interna energia, presto evolvendo la ricerca verso nuovi effetti di cromatismo. Lo sottolineava Enrico Crispolti nel catalogo della personale promossa nel 1984 a New York dalla Regione Friuli Venezia Giulia, parlando di “una sua concretezza di manipolazione, fisica, sensuale, appassionatamente partecipata” come matrice dell’immagine plastica, che transiterà dalla ceramica anche al suo approccio con il bronzo, espressionisticamente o informalmente trattato, o con il ferro piegato e smaltato, o negli anni settanta, con la pietra e il cemento. L’occhio acuto di Arturo Manzano a suo tempo, posandosi sulle ceramiche di Ceschia in mostra nell’aprile del 1959 al Circolo bancario udinese, aveva già rilevato, nelle sue note d’arte da queste stesse pagine “quello che oggi il ceramista tarcentino ci offre di veramente positivo è il temperamento, cioè non poca cosa, e cosa che consente di fidare in lui”(Ceramiche di Ceschia al Circolo bancario,14-4-1959). Al temperamento si aggiunse la ricerca di un linguaggio personale, coltivato nel vivace ambiente artistico friulano del dopoguerra, tra le teste espressioniste di Zigaina, l’approccio informale alla materia di Dino, l’immaginario totemico di Mirko, rivelando poi affinità elettive con l’opera di Agenore Fabbri ceramista e scultore. —

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