In un libro la storia di Luciano Battiston, il friulano sopravvissuto ai lager
Il volume è stato scritto dallo storico Alessandro Fantin ceh ha raccolto la testimonianza del nonno, deportato a Mauthausen nel 1945
“Padre eterno, se ci sei, mi devi chiedere perdono”, recitava così una scritta su un muro del lager austriaco di Mauthausen. Un’invocazione che era accorata e disperata ammissione di fede, nonostante la ferocia e la disumanità che in quel luogo terribile si erano consumate. E a questa scritta rimanda anche il titolo di un nuovo libro testimonianza sugli orrori di Mauthausen. Dio mi deve chiedere perdono.
La storia di un ragazzo di campagna deportato a Mauthausen l’ha scritto, per la collana Memoria della Ediciclo editore, lo storico Alessandro Fantin e raccoglie la testimonianza di suo nonno, Luciano Battiston, ultimo sopravvissuto del pordenonese ai lager nazisti, in particolare il campo di concentramento di Mauthausen e successivamente nei suoi due sottocampi, Amstetten e Ebensee.
Ma chi è Luciano Battiston? Luciano Battiston è ancora un ragazzo, poco più che ventenne che vive in famiglia a Fagnigola, frazione di Azzano Decimo, quando agli inizi del 1945 viene arrestato durante un rastrellamento notturno da parte della banda fascista Vettorini, imprigionato a Pordenone, torturato e condannato a morte in quanto traditore per non aver aderito alla Repubblica di Salò dopo l’8 settembre.
Graziato viene però spedito a Mauthausen dove viene internato il 7 febbraio con il numero di matricolo 126625. Qui vive fino allo stremo, arriverà a pesare solo 28 chili lui alto un metro e 82, soprusi e violenze di ogni genere, “vive la morte, perché nel campo tutto è morte”, un litemotiv nella sua lucida testimonianza, tra fame, botte e lavori sfiancanti. Riuscirà a sopravvivere all’inferno del lager retto dalla ostinata volontà di tornare e anche grazie a un compaesano, Luigi “Vigi” Belluz, ritrovato nel campo, che, più grande di lui di una decina d’anni, si prende cura del sempre più fragile Luciano stabilendo un patto “o via tutti e due a casa o tutti e due morti”.
Saranno liberati dagli americani il 6 maggio ’45, e insieme affronteranno un cammino rocambolesco a piedi lungo e pieno di avversità che li riporterà finalmente a casa. Il racconto di Luciano, suddiviso in sequenze temporali dalla cattura al rientro e che occupa la parte preponderante del volume, è sapientemente introdotto dalle annotazioni e dalle note esplicative di Fantin sulla storia del campo nazista, sulla sua organizzazione interna, sulla suddivisione degli internati, sui comportamenti del tutto arbitrari degli aguzzini che garantivano “l’ordinato” andamento della vita e dei lavori nel campo.
Sicchè il merito del lavoro di Fantin è che non è appiattito solo sull’esperienza personale del protagonista, ma si allarga a una dimensione che è storica prima ancora che memorialistica.
Ma c’è una cosa che colpisce subito il lettore della testimonianza di Luciano, che alla bella età di 101 anni vive ancora a Chions, dove a Villa Perotti il volume sarà presentato oggi, sabato 18 alle 17, ed è il fatto che a più riprese sottolinea con insistenza che dirà solo delle cose che ha visto, quasi un retaggio di quel non voler o non poter raccontare per timore di non essere creduti o giudicati, tratto comune a molti dei sopravvissuti dopo il rientro dai campi. «Questo è uno dei punti nevralgici del testo ossia la paura, una volta tornato, di non essere capito, di essere giudicato ma non compreso, spiega Fantin. Spessissimo, non solo durante la registrazione ma anche durante i molti viaggi che abbiamo fatto a Mauthausen con scolaresche e concittadini che volevano accertarsi in loco di quanto era successo, mio nonno mi ha sempre detto che la fame ha fatto fare a lui come a tantissimi altri cose che non si possono capire fino in fondo, perché la disumanizzazione imposta dal sistema concentrazionario e un quotidiano di stenti privazioni e vessazioni portava chiaramente anche l’uomo contro l’uomo. Paura quindi di non essere compreso ma anche vergogna per quello che era accaduto». —
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