L’inferno di Giampaolo Manca ex bandito della mafia del Brenta «Maniero? Sarà Dio a giudicarlo»
luana de francisco
Non ci crede che quelli arrestati a Eraclea e dintorni siano casalesi. La mafia non usa presentarsi. “Amico, sono un camorrista e quindi qui si fa quello che dico io”. No, se te li trovi di fronte, lo sai e basta che sono loro. Giampaolo Manca, il “Doge” ai tempi della sua spericolatissima vita da bandito ai vertici della mafia del Brenta (era nel commando che, nel luglio del 1988, assaltò una banca di Rivignano), ne è convinto. Perché lui, in quel mondo infernale è cresciuto e si è affermato, conquistando ricchezze a non finire e quella controversa forma di rispetto riservata ai malviventi di spessore. E perché anche quando la legge lo disarmò, togliendogli la libertà e condannandolo a oltre trentasei anni di reclusione, ha continuato a misurarsi con alcuni tra i più pericolosi personaggi della criminalità organizzata. E allora, adesso che è tornato a casa, a Marghera, dalla sua amata famiglia, e che l’affidamento in prova ai servizi sociali gli consente anche di allontanarsi per presentare l’autobiografia scritta durante la sua lunga detenzione, leggere che la mafia ha messo radici a Nord-Est non può lasciarlo indifferente. E non certo perché la notizia non sia vera.
Signor Manca, cos’è che non le torna?
«Dai, è ridicolo che uno si vanti di essere casalese (nelle intercettazioni raccolte dagli investigatori coordinati dalla Dda di Venezia, si sente tra l’altro dire: “Ma perché tu non gli hai detto che sei amico dei casalesi?”, ndr). Per quel che ne so io, e di esperienza ne ho parecchia, quando uno millanta di appartenere a questo o a quel clan, significa che non è vero. E la ragione è semplicissima: se lo dici, il giorno dopo sei un uomo morto. La “famiglia” non te lo perdona, e questa è una regola tassativa».
Ma ad affermarlo è Luciano Donadio, ritenuto il promotore del clan di casalesi collegato al gruppo Schiavone di Casal di Principe.
«Durante la reclusione, anche in carceri speciali, e, prima ancora, nei miei quarant’anni di strada e durante i viaggi in Sud America, ho conosciuto un po’ tutti i boss, compresi i capi dei casalesi. E di questa persona non ho mai sentito parlare. E poi, scusi, pensi quale danno può arrecare, per esempio a chi è in galera, un’affermazione del genere. Quelli sono mondi oscuri e certe rivelazioni scompaginano equilibri. Magari è casalese per davvero, ma soltanto nel senso che è originario di Casal di Principe».
Insisto, ricordandole che in un’altra intercettazione Donadio sostiene che persino il nipote di Totò Riina andò a Eraclea a chiedergli aiuto. E che altrettanto fece un esponente della Mafia del Brenta.
«Ecco, appunto, veniamo al caso di Luciano Maritan per comprendere la levatura delle persone di cui stiamo parlando. Le sembra che un boss debba intervenire per recuperare una somma di appena 400 euro (un prestito che uno dei suoi uomini aveva tardato a restituire, ndr)?».
Va bene. Allora dove e quali sono i mafiosi a Nord-Est?
«No comment. Non sta a me dirlo. Se qui c’è la mafia, è un problema della magistratura».
E voi? Cosa ne è stato della mafia del Brenta?
«Bisogna smetterla di accostarci ai mafiosi. Piuttosto, siamo stati simili alla banda della Magliana, che poi però ha fatto il salto di qualità».
È stato il timbro della Cassazione ad attestare che la vostra fu un’associazione di stampo mafioso.
«Quella sentenza, che è definitiva, non mi va giù. Ma in quel momento andava a tutti bene che si chiudesse così. Ciò non toglie che i giudici possano essersi sbagliati. Eravamo un’estesa banda di trafficanti e banditi, questo sì. Ma per la nostra cultura e per come ci comportavamo, non eravamo affatto mafiosi. Non basta parlare di omertà, che esiste anche tra i rapinatori, e neppure di controllo del territorio e del terrore che incuti. I mafiosi vivono di tangenti e di rapporti con la politica. Come Carminati, che si relazionava con i palazzi. Noi, invece, facevano tutto da soli».
In una recente intervista, Felice Maniero ha detto che i suoi ex complici si stanno riorganizzando per tornare a dettare legge nei traffici illeciti.
«Quel signore là è stato un opportunista. Ma ha fatto la sua scelta e io la mia. Non provo rancore verso di lui. Risponderà delle sue azioni davanti a Dio. Ora, così come in passato, dice ciò che gli conveniva: merce di scambio. Vuol far credere questo, perché avrà bisogno di qualcosa dallo Stato, che lo ha già assecondato in tutto. Io, invece, ho chinato la testa e il mio obiettivo, adesso, è costituire un’associazione per i bambini poveri. Nel libro racconto la mia vita, per evitare che le giovani generazioni incorrano nei miei stessi errori. Ecco. Sa cosa mi piacerebbe?».
Cosa?
«Affrontare Maniero in un confronto televisivo. Per fare capire a tutti chi è stato e chi è veramente. Smarcandomi una volta per tutte da qualsiasi accostamento a lui». —
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