L’inno alla libertà (di stampa)

“The Post” di Spielberg, con i due magnifici Streep e Hanks, ci consegna un’energia giornalistica utile ai nostri tempi bui e censurati

Naturalmente americano fino al midollo, d’altronde The Post è nativo statunitense e non certo svizzero, per cui trattiene le tipicità di quel cinema patriottico e autocelebrativo.

Spielberg fa bene a rimestare nella storica era dei “Pentagon Papers”, documenti governativi top secret sulla guerra in Vietnam, poi sinteticamente sbattuti in prima pagina sul New York Times e poi sul Washington Post.

Come dire, giornalisti ed editori consci e fieri di esserlo anche quando il buon senso imponeva di non farlo.

Oggi? Per piacere. Il rischio non fa più parte del gioco, meglio accondiscendere i potenti e salvare il sedere ben imbullonato sulla sedia. Chi mai in questo inizio di millennio si sognerebbe di pubblicare roba che scotta rischiando la galera? Non vediamo passi avanti. Né mai li vedremo, contateci.

Ciò che l’opera The Post evoca supera l’arte cinematografica, sebbene re Steven sia re Steven e Meryl Streep e Tom Hanks siano due colossi dell’entertainment colto.

Film necessari, potremmo definirli così. Film utility a smuovere pensieri ormai rattrappiti e immagini di eroi impalpabili.

Vi ricordate di Tutti gli uomini del presidente? Ecco, il caso Watergate, per farla breve. Uscì nel 1976 giusto pochi anni dopo l’impeachment di Nixon. E anche allora due giornalisti del Post Bob Woodward e Carl Bernstein fecero l’impresa, bombardando d’inchiostro la Casa Bianca.

In realtà The Post finisce dove inizia Tutti gli uomini del presidente, in una sorta di omaggio all’ardore che verrà.

Meryl s’infila negli abiti classicheggianti dell’editrice Katharine Graham, con l’eleganza che le appartiene e il tenero Hanks è il direttore Ben Bradlee, con la camicia e la cravatta d’ordinanza, l’ancora sfoggiato cronista style.

Nei Settanta i giornali si sfidavano sui fatti, dando per certa la veridicità degli stessi. Lo snodo attuale, invece, riguarda in primis la bontà dei fatti, il che - a volte - sfalda la fiducia.

Spielberg non si limita a osservare il passato con il savoir-faire che gli è congeniale, riesce a scavalcare l’epoca, trascinando nel presente il significato di una scelta forte, in questo presente dove mai nessuno tirerebbe una stampella contro il nemico, preferendo usarla per farsi largo nella fuga, se servisse.

Non è spoiler, sia chiaro. La storia è storia, non fantasy e non è nemmeno un thriller. Ci piace mettere in circolo la frase che il giudice pronunciò per assolvere i giornali rei di aver trasgredito le regole, per la buona causa, s’intende.

Ovvero svelare le verità nascoste sul Vietnam, obbligando gli americani a spalancare gli occhi sulle bugie dei presidenti, da Jfk a Nixon, passando per Johnson: «La stampa serve chi è governato, non chi governa».

Che diventi slogan dei nostri tempi.

©RIPRODUZIONE RISERVAT

Argomenti:piccolo schermo

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto