Lo scrittore israeliano Eshkol Nevo si racconta a Pordenonelegge

L’autore presenterà “Legami”, venti storie su sentimenti e rapporti: «In patria ho visto gente disperata, con le mie parole li aiuto a guarire dal trauma»

Cristina Savi
Lo scrittore israeliano Eshkol Nevo sarà al Capitol di Pordenone, alle 10, per presentare “Legami”
Lo scrittore israeliano Eshkol Nevo sarà al Capitol di Pordenone, alle 10, per presentare “Legami”

È uno degli autori più attesi, a Pordenonelegge, Eshkol Nevo, scrittore israeliano amatissimo nel mondo e fra gli esponenti più seguiti della generazione successiva ai David Grossman, Abraham Yehoshua e Amos Oz. Anche in Italia, Paese con il quale ha un legame particolare, Nevo è seguito da un vastissimo pubblico, e ben prima che nel 2021 Nanni Moretti traesse un film dal suo romanzo “Tre piani”, pubblicato in Italia da Neri Pozza.

Intervistato da un altro scrittore, Tullio Avoledo, Eskhol Nevo nella mattinata di mercoledì 18 settembre sarà al Capitol di Pordenone, alle 10, per presentare il suo ultimo libro, “Legami”, (Feltrinelli Gramma), in cui, ancora una volta, racconta le infinite forme del desiderio, che alimentano o infrangono le magnifiche storie d’amore, familiari e d’amicizia. Un libro di racconti, “Legami”, venti storie che i critici, unanimi, ritengono una delle sue più riuscite conferme.

I temi sono forti: il lutto, la depressione, il tradimento, la malattia, problemi finanziari, ma anche la generosità, la solidarietà, l'amore tra genitori e figli, l’innamorarsi. Una sorta di viaggio a puntate dal dolore alla guarigione. L’abbiamo incontrato, ieri, a Pordenone, nella hall dell’albergo Best Western, dove, con la gentilezza e l’affabilità che lo distingue, ci ha parlato del suo ultimo libro, ma anche del dramma del conflitto in Medioriente, di quanto è bello il suo Paese (“dovete assolutamente vederlo”), delle sue tre figlie, di cui una, 20 anni, è già soldato e una seconda, 18 anni, entrerà nell’esercito a novembre (“e sono molto preoccupato”).

Eskhol Nevo, in questo suo nuovo libro lei regala ai lettori venti racconti che parlano di legami affettivi, di fragilità, di corpi e fisicità, di sangue, di destini. E fissano un momento particolare delle vite dei protagonisti, vite in cui c’è sempre qualcosa che sta per cambiare, dove a ognuno è data la possibilità di ricominciare, di rinascere. Attraverso che cosa?

«Secondo me avviene quando c’è una routine che viene spezzata. Faccio l’esempio (si riferisce a un paio dei racconti, ndr) dei due amici che giocano a tennis da sempre, nello stesso campo, alla stessa ora e all’improvviso, una sera, entra sul terreno di gioco una sposa, vestita di tutto punto, con l’abito nuziale, il trucco, i tacchi alti… O della coppia dove sembra che stia andando tutto bene e invece arriva il Covid, le finanze collassano e scoppia la crisi. Direi che c’è un triangolo, costituto da due persone che si scontrano con la realtà, la conseguenza è la necessità di cambiare e di doversi adattare. Che diventa un’opportunità».

La sua capacità di narrare così intensamente la complessità delle relazioni e dell’animo umano ha a che vedere con il fatto che lei vive in un paese particolare come Israele, denso di contraddizioni, dove ci sono ferite che non riescono a guarire, dove la guerra è sempre sullo sfondo?

«Non lo so, sono nato e cresciuto in Israele, ho sempre scritto in ebraico, che è la lingua più antica del mondo e ha molti strati…Le racconto quello che mi è capitato a Parigi, in una bellissima libreria inglese chiamata Shakespeare & Co, dove un signore di punto in bianco mi chiese: “Se tu non fossi israeliano saresti uno scrittore?”. Anche allora risposi che non lo sapevo. Sono quello che vivo e reagisco a quello che vivo al momento, anche alle esperienze più traumatiche. Tutto in Israele è molto intenso, Roma e Milano messe insieme non raggiungerebbero il livello di intensità di Tel Aviv. A Torino, nella scuola Holden in cui per due anni ho insegnato scrittura creativa a studenti italiani, ho notato che per loro era difficile scrivere di conflitti, mentre per gli studenti israeliani non lo è: devo convincerli a essere più pacati, perché invece sono molto diretti, come lo sono i rapporti e i dialoghi nelle mie storie, ma semplicemente perché questo è il modo in cui comunichiamo».

Qual è il contributo che uno scrittore, un intellettuale (e psicologo) come lei deve portare in una situazione di conflitto come quella che sta vivendo Israele? Provare ad alleviare il dolore o piuttosto essere la coscienza critica di un Paese?

«Con questa domanda lei sfonda una porta aperta. È un dilemma enorme, da quando è scoppiata la guerra: essere un terapeuta o coscienza critica? Quando sono tornato in patria, il 12 ottobre, ho visto solo gente disperata, attraversata da un grande dolore e ho pensato che attraverso le mie parole, le mie storie, potevo aiutarli a guarire dal trauma, potevo offrire a cittadini, a soldati o a famiglie uno spiraglio di speranza. Penso non sia il momento giusto per fare grandi discorsi. È come quando sbagli strada e Google Maps ti fa ricalcolare l’itinerario: sto ricalcolando tutto del mio viaggio da intellettuale. Il più delle volte la gente vuole che io parli di politica, ma in questo momento non me la sento».

In molte parti del mondo ci sono state e ci sono manifestazioni contro lo stato ebraico, tornano a galla questioni antiche. A un israeliano ebreo come lei che effetto fa essere accusato di genocidio?

«Non sono toccato da queste dimostrazioni perché la situazione è più complicata del “bianco o nero” o del “bene o male”. È difficile spiegare alla gente che non ha una conoscenza profonda della situazione ciò che sta succedendo. Ciò non significa che non possiamo essere criticati, che il governo non possa essere criticato, lo critico io stesso. Ma accetto critiche da chi conosce le ragioni storiche sia del conflitto fra Israele e Palestina sia del radicalismo islamico e chi sta dimostrando non credo ne sappia abbastanza».

Cosa deve accadere affinché torni la pace in Medioriente? Anche se lei ha più volte detto che non si potrà parlare di pace fino a quando le ferite invisibili non si saranno rimarginate.

«Se parliamo di leadership ci vorrebbe qualcuno come Nelson Mandela, ma il primo ministro israeliano è l’opposto di Mandela e allo stesso modo il leader di Hamas. C’è una totale mancanza di empatia, di emozioni e senza questi sentimenti la pace non potrà arrivare. Quello che tento di fare attraverso la letteratura è sottolineare che più ci conosceremo, più ci ascolteremo, più, forse saremo capaci di perdonare e di ricominciare. Devo sperare sia possibile, perché non voglio che i figli delle mie figlie si ritrovino nella situazione in cui stiamo vivendo adesso».

Lei è nipote di Levi Eshkol, che è stato il terzo primo ministro di Israele dl 1963 al 1969. Cosa avrebbe fatto suo nonno, oggi, per arrivare a un cessate il fuoco?

«Mio nonno era conosciuto per la sua abilità di compromesso, strada che secondo lui andava perseguita fino a quando non si otteneva il risultato voluto. Credo che ci sia bisogno (e invece ne soffriamo la mancanza), in Israele, di gente con la volontà e la capacità di negoziare e di farlo mettendosi in un rapporto di empatia con l’altro»

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