Mamme, dee e labirinti, un saggio racconta gli affascinanti volti della grande madre

Floreana Nativo analizza la rappresentazione nei secoli. Il volume sarà presentato alla Guarneriana

Angelo Floramo

É uno dei più antichi culti e viene raccontato da un libro, Il volto della grande madre, di Floreana Nativo (tra le righe Libri). Il volume sarà presentato mercoledì 9 novembre, alle 18, da Angelo Floramo e Giuseppe Florica alla presenza dell’autrice, alla Biblioteca Guarneriana di San Daniele, e giovedì 17 alle 20.30 a Fagagna, Cjase Cocel , con Giuseppe Fiorica e Andrea Ioime, letture di Elisabetta Brunello.

Infine mercoledì 30, alle 18, in Biblioteca Joppi a Udine, con Cristina Marsili e Giuseppe Fiorica. Ecco la prefazione a cura di Angelo Floramo, gentilmente concessa dalla casa editrice.

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Il culto dell’Antica Dea, la madre di tutte le madri, è tra i più affascinanti da indagare, e Floreana Nativo lo fa con la sua solita sagace grazia, capace di narrare spiegando e di spiegare narrando.

L’argomento è curioso, ricco di notevoli sfaccettature, e bene si interseca con moltissime altre attestazioni che riconducono allo stesso identico tema: quello del grembo fecondo capace di generare e di conservare, utero e viscere, polla sorgiva di amniotiche rigenerazioni, bacino e calderone alchemico.

Archetipo, simbolo originario della conoscenza e dell’esperienza di sé, anche labirinto che esprime da sempre stretta analogia tra la parola e la conoscenza.

Nei graffiti preistorici attraverso stilizzazioni labirintiche venivano rappresentati i capezzoli della dea madre, l’utero primigenio dal quale tutto deriva.

Nei manoscritti medici di età medievale simile labirinto viene miniato e circoscritto nel ventre della gravida in attesa di partorire: il feto cresce aprendosi la strada nel primo percorso iniziatico della sua vita: la nascita appunto.

L’idea archetipica della donna è per l’uomo antico sempre spiraliforme, labirintica. Donna, Terra, Madre. Nel suo fecondo labirinto vaga il seme dell’uomo che germina se stesso.

Una significativa anabasi nel mondo degli inferi, nel concetto antropologico di interno-inferno, mondo ctonio sul quale regna Proserpina, dea lunare e proserpente, madre di Cerere, Signora delle messi.

E la donna è madre, come lo è la lingua: la lingua del neonato che, ancora infante (in fans, non capace di parlare) sugge dal capezzolo il latte e le parole che ancora non sa pronunciare.

Le sue labbra si dischiudono sul labirinto: ancora una volta un percorso iniziatico che lo porterà alla trasformazione sublime, alla metamorfosi della rinascita. Apprendere la parola significa infatti rinascere uomo.

Il nesso tra parola e labirinto è evidente anche nel caso della simbolizzazione dell’orecchio, luogo o in cui il Verbum vaga nel dedalo dell’inconsapevolezza prima di raggiungere l’ultimo significato: la sede dell’intelletto. Volute non dissimili si attorcigliano dunque tanto nel grembo fertile della madre quanto nella mente capace di pensiero.

Concepire è infatti facoltà di entrambi: dalla mente le idee, dal grembo l’uomo. Risolvere l’enigma è dunque una sorta di regressus ad uterum, come dimostra la tragedia greca dell’Edipo, che nel suo destino di “re sacrificale” è vicinissimo all’immagine del Cristo, lui pure marito di sua madre e fratello dei suoi figli, secondo l’enigma degli enigmi preconizzato da Tiresia ma anche nascosto tra le pieghe delle sacre Scritture.

Se è vero infatti che ogni labirinto è successione infinita di porte, Tebe è ipostatizzazione di tale concetto: essa è la città universale, così come lo diventeranno in epoca medievale Gerusalemme o Babilonia, assieme alle loro corrispettive gemelle celesti e infernali: suggestiva l’idea stessa del doppio, della ripetizione, dell’immagine speculare che è uno dei principali fondamenti dell’architettura di un labirinto.

E’ proprio verso la città dalle cento porte che si dirige Edipo, il risolutore di enigmi, il viandante che percorre i sentieri della ricerca e della Verità, precursore di numerosi suoi emuli che hanno calcato le vie di tanta novellistica medievale.

La sua ansia di conoscere “chi sia, da dove venga e dove andrà” (il filo della vita) lo porterà a ritrovare se stesso e sua Madre: Giocasta è Tebe e Tebe è il Labirinto. Edipo, con il filo sottile dei suoi pensieri, ne spezzerà la circolarità, offrendo l’unica chiave capace di indicare il solo, terribile percorso accettabile: perdersi nel labirinto-grembo dal quale proviene per ritrovare alfine se stesso.

La luce della Verità acceca chi ne persegue i fini. Il filo logico che Edipo rincorre è pari a quello di Arianna, il cui nome etimologicamente significa “io sono la luce”: immediato il raffronto cristologico dell’“Io sono la via, la verità e la vita”.

E’ un filo anche quello intessuto dalle mani delle Parche (e non è forse un riferimento alla vita dell’uomo, al fragile filo, la risoluzione dell’enigma propostogli dalla Sfinge?) o la treccia che la dama getta dal balcone della torre affinché il cavaliere-amante ne espugni il castello d’amore, labirinto anch’esso e luogo simbolico carico di suggestioni; ma filo è anche la filastrocca (stessa etimologia) che incanta, che apre le porte dei luoghi segreti e indica la via, ora formula magica, ora tutela apotropaica del saggio viandante, ora canto d’amore del cavaliere errante cui il destino indicherà al fine la via: fata viam invenient. Buna lettura dunque. Favente Domina.

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