Martina Badiluzzi: «La mia Penelope, una storia di riscatto dal potere maschile»

La giovane regista friulana al Romaeuropa Festival. «L’apprendistato amoroso di una donna di oggi»

Mario Brandolin

Un’infanzia e adolescenza tutta udinese, un anno alla Nico Pepe di Udine e poi il grande sbarco a Roma dove ha studiato, tra gli altri, con maestri quali Anatolij Vasil’ev, il duo Deforian/Tagliarini, Lucia Calamaro, Christiane Jatahy, Romeo Castelluci, e dove tra mille difficoltà sta imponendosi per un suo percorso originale e personale.

Parliamo della giovane Martina Badiluzzi che recentemente al Mattatoio di Roma ha presentato per il prestigioso e internazionale Romaeuropa Festival il suo ultimo lavoro: Penelope, secondo capitolo di una trilogia dedicata all’universo femminile contemporaneo attraverso figure femminili del passato il cui spessore umano e simbolico risuona con forza anche nel nostro presente.

«Penelope – racconta – arriva a due anni di distanza di The Making of Anastasia con cui avevo vinto il bando Biennale College Registi Under 30 e che metteva in scena la storia di Anna Anderson, la donna che per tutta la vita ha detto di essere l’ultima Romanov senza peraltro essere mai creduta e prima de Le Sorelle Bronte, il mio prossimo progetto.

Per Penelope ho preso spunti dal romanzo di Margaret Atwood, Il canto di Penelope e da quello di Clarice Lispector, Un apprendistato o il libro dei piaceri»

Che storia di Penelope viene fuori, una storia di riscatto dal potere maschile, di presa di coscienza…?

«A me piace definirla come un apprendistato amoroso che passa attraverso le relazioni col maschile, dal padre ai compagni di scuola, il branco dei maschi, fino all’incontro con l’uomo della sua vita Ulisse. Anche se alla fine questo incontro si tradurrà poi in un’assoluta solitudine.

Da qui le domande che Penelope si pone. E che la faranno crescere. Lavora di fantasia e immaginazione la mia Penelope, donna di oggi, che ha conti in sospeso col maschile che cerca di far quadrare ripercorrendo a livello simbolico e fantastico gli incontri e i personaggi che scandiscono l’Odissea».

Nello spettacolo c’è un’interprete, Federica Carruba Toscano, ma non è sola.

«Infatti non è sola pur in una situazione di solitudine amplificata da un caldo afoso: a tenerle compagnia infatti ci sono tanti ventilatori che puntellano il corridoio in cui si rifugia (l’allestimento lo firma l’artista visivo Fabrizio Cicero) e i quali come in un contrappunto musicale (le composizioni sono di Samuele Cestola in arte Samovar) evocano i vari personaggi».

Teatrante a tutto tondo, drammaturga, regista e attrice, anche con un curriculum piuttosto denso di riconoscimenti, lei fa parte di quella generazione di artisti trentenni o giù di lì, determinati, curiosi, attentissimi al presente, che però fanno fatica a trovare spazi e continuità.

«È vero, e spesso siamo costretti a soluzioni sceniche e drammaturgiche, come i monologhi, che non dico di ripiego, ma i soli che ci facilitano nella circuitazione, ad esempio.

Ma per il prossimo progetto conto di rifarmi: quattro personaggi per Le sorelle Bronte, un progetto che inizierò proprio in Friuli a Villa Manin, e questo lo considero un ritorno di buon auspicio, dove fino ai primi di dicembre sarò al lavoro con gli interpreti all’interno di Dialoghi, le residenze del Css».

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