Mauro Corona narra l’ultimo sorso di Celio: biografia del dolore che vive di emozioni

Non è una storia come le altre. Non basta usare gli occhi per leggerla. Bisogna dilatare le narici, inspirare per sentire il profumo di fieno che è in ogni parola. Togliersi pregiudizi, ipocrisie, lustrini e andare nudi come la scrittura di Mauro Corona, ruvida quanto una corteccia, vera come l’acquavite, fatta di parole porose che trasudano vita e disperazione, realtà e poesia, fame d’amore. L’ultimo sorso. Vita di Celio (Mondadori) è una storia scomoda per chi non è abituato a fare i conti con se stesso, necessaria a chiunque: una biografia del dolore che «vive di emozioni», raccontata «sul bordo della memoria», causata da ricordi «che zampillano» liberamente costringendo l’autore ad anticipare o tornare. È la corrente a portargli pezzi di vita perché le persone ritornano a noi come stagioni a salvarsi dall’oblio: «I ricordi mi dicono “siediti qui”. E iniziano a raccontarmi le mille avventure vissute con l’amico». A lui, che lo portava a rane, a pescare, a galli forcelli, a scalare, deve la protezione dalle violenze del padre.
Celio, «partorito tra l’erba come le capre» dalla madre che lo ha «sputato» sotto il cielo «su un ciuffo di fieno come Cristo», fragranza che amò per tutta la vita, necessitava di respirare all’aria aperta. Cresciuto tra gli odori di terra e bosco, figlio di N.N. e dell’intero paese con troppi e brutali maestri, morso dalla «vipera dell’alcol», «emanava profumo di calma, pacatezza, malinconia, tristezza, riflessione. Felicità mai».
Sarebbe diventato ciò che aveva respirato da bambino. Filosofo inconsapevole, artigiano abilissimo, lettore e taglialegna, rocciatore geniale, “verticale” come il nome “Erto”, fustigatore sarcastico dell’ignoranza, ribelle, inviso, incandescente. Lavoratore solitario, di fatica per far fronte alla fatica di vivere, schiavo della madre e del vino. Generoso, pietoso dei camosci uccisi, di gran cuore, dolcezza e umanità. «Larice solitario» senza vicini, attratto dalla diversità e umiltà delle cose, insofferente della massa, antifascista, amico dei senza voce, onesto.
In uno sputo di paese di gente ruvida, povero, isolato, scaldato dalla sciarpa di bosco, colmo di poesia, in cui si vive secondo natura, a ritmo delle stagioni, percorrendo guerra, notte del Vajont, anni ’70, Celio incontrò «Bacco, tabacco e venere. Di tutti e tre, fu il primo a essergli fatale». Vita come una scalata o come una sola grande sbronza fino alla follia, al delirio, al cedimento. Fra le pagine, un amore misterioso, una donna amata su un tavolo di «noce antico di venature fiammate», un fuoco acceso da un accendino che attraversa tre amici.
A Corona, voce narrante, restano di Celio due tavoli, un orologio, una ciotola, qualche cimelio da roccia e chiodo forgiati da lui, un accendino, una foto in bianco e nero, e insegnamenti di cose buone o meno buone. Da lui ha imparato il coraggio, i nomi delle pietre, a leggere la gente e la natura, a non giudicare, ad ascoltare. Ha scoperto che la morte muore quando moriamo, come l’ape che perisce pungendo.
Celio sceglie parole mai banali, sonore come “rocciare”. Nitide e sagge, sia quando arrivano imbevute di ironia (sulle donne o nel ristorante di Belluno) a scatenare sorrisi spassosi, sia quando feriscono o veicolano dolore silenzioso che giunge lacerante proprio da chi parla poco. È un «uomo essenziale» come il ladino, lingua che fa più intima e vera ogni cosa, conferendole memoria e dignità.
È il protagonista a insegnarci come leggere il romanzo, sospendendo il giudizio. Ascoltiamo un’esistenza piagata da errori, dolori e sensi di colpa, stappata a fatica, narrata a sorsi, fino all’ultimo che già non è più vita. Chi sia veramente Celio non lo sapremo mai. Forse in lui si cela o si mostra l’autore stesso. Ciò che sappiamo è che Mauro Corona, narrandolo, lo chiama “amico” e “maestro”. Ciò che scopriamo, a fine lettura, è che Celio è amico e maestro nostro. —
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