«Mi salvai mangiando una tavola di legno»
Gregorio Bigattin (Bruno) di Aquileia: ho visto solo morti Guido Coos di Tarcento: 1.100 km a piedi a 45 gradi sotto zero

«Mi sono salvato mangiando una tavola di legno. Me l’ero procurata perché un vecchio mi aveva detto: “Mastica il legno, ti dà saliva e vivi”». Gregorio Bigattin per tutti Bruno, è uno dei pochi reduci di Russia – in regione sono una cinquantina (gli iscritti alla sezione friulana dell’Unirr non sono più di sei) – ancora in grado di raccontare l’orrore vissuto dalle “centomila gavette di ghiaccio”. Oggi tocca a Bigattin e a Guido Coos di Tarcento ricordare anche se, alle volte, non vorrebbero doverlo fare: dalla fame, dal freddo e dalla morte che li accompagnarono per tutta la ritirata non si sono mai liberati. Oltre 229 mila soldati furono sconfitti dal generale inverno prima che dai russi: indossavano gli stessi vestiti con i quali erano partiti nell’agosto precedente, il rancio era poco e le armi spuntate. In 95 mila non tornarono. Le stime dell’Unirr parlano di circa 70 mila prigionieri e di questi rientrarono poco più di 10 mila.
Nato il 9 maggio 1922, Bigattin non aveva ancora compiuto 20 anni quando venne arruolato al battaglione Gemona nell’8° reggimento Alpini della Julia con destinazione Plezzo. Era il terzo di tre fratelli e per questo aveva diritto all’esonero, ma lui preferì lasciare quella possibilità al fratello maggiore, già in Russia, che a casa aveva moglie e figli. Seguì qualche mese di addestramento, il trasferimento a Tarcento all’11° compagnia dell’artiglieria anticarro, prima di salire, era il 12 agosto 1942, sul treno che dalla stazione di San Giovanni al Natisone lo portò a Jzium, tra il Dnepr e il Don. Da qui iniziò la marcia verso Valujki e Rossos’. «Ho visto solo gente morire, niente altro». La voce roca di Bigattin ti entra nell’anima: «Eravamo allo sbaraglio, senza vestiti, senza mangiare, con 45-47 gradi sotto lo zero. Nevicava, quanta neve, sotto ogni mucchio c’era un morto». Era una battaglia ad armi impari. «Prima di arrivare a Nikolajewka eravamo di qua e di là del Don. I russi cantavano la nostra canzone “Addio mia bella addio”». Fu una carneficina. Nella ritirata verso Valujki «sparavamo con pallottole perforanti “piccole” che nulla potevano fare». I sopravvissuti imboccarono strade diverse, Bigattin, come molti altri, cercò aiuto nelle isbe dove i contadini russi dividevano con i militari sfiniti le razioni di patate. Arrivò a Nikolajewka. Il 24 gennaio 1943 attraversò la ferrovia salendo a tentoni, nonostante il congelamento alle gambe, sulla rupe da dove si lasciò rotolare. Si aggrappò a un carro di contadini e si ritrovò in ospedale con gli arti sempre più immobilizzati. «Era un congelamento di secondo grado, mi operarono strappandomi la pelle a freddo. Misi una suola in bocca e non riportai alcuna conseguenza». Alcuni giorni dopo sgombrarono l’ospedale, Bigattin salì su un treno e 40 chilometri dopo venne fatto prigioniero. I russi gli sequestrarono il diario della ritirata, gli lasciarono solo il San Giuseppe che aveva ricevuto in dono da una donna prima della partenza. Da quel santino non si è più separato. Chiuso nell’Isba assieme ad altri 89 soldati, Bigattin rimase 17 giorni senza mangiare. Si salvò rosicchiando la tavola di legno. «Tutti i giorni moriva qualcuno e poi c’era il boia, era alto due metri, tutte le mattine veniva a controllare e guai se non trovava tutti al loro posto. Era un bestione sempre ubriaco, faceva paura». Bigattin capiva la loro lingua e una mattina ascoltò un russo mentre diceva a un tedesco “adesso ammazziamo gli italiani”. «Entrammo nella stanza in 90, ci fucilarono, uscimmo in 12. Mi salvai perché due soldati mi caddero addosso». Da quell’ennesimo inferno lo liberarono le truppe tedesche. Bigattin salì su un treno diretto in Germania e poi sulla tradotta della Julia che lo portò a Vipiteno. Trascorse Pasqua 1943 in famiglia. Pesava 45 chili. E alla domanda «come si fa a vivere dopo un’esperienza del genere?», Bruno risponde: «Con fatica si tira avanti». E a chi gli fa notare che, 75 anni dopo, ci sono altri Paesi in guerra, lo sguardo del reduce di Russia si fa più intenso per aggiungere «non abbiamo capito niente».
Lo ripete anche Coos nella sua casa di Tarcento. Lo fa dall’alto dei suoi quasi 97 anni calandosi nei panni dell’alpino della Julia, battaglione Cividale sopravvissuto alla campagna di Grecia e alla ritirata della Russia. Coos si commuove, «mi fa male ricordare», rivela ammettendo di vivere tutti gli anni le giornate antecedenti le commemorazioni di Cargnacco con ansia. Con la mente torna all’agosto 1942, alla partenza verso il fronte ucraino, e rivede Vittorio Emanuele III al parco Moretti di Udine salutare gli alpini inviati al massacro. «Il 4 gennaio 1943 occupammo la quota “Signal”, per la prima volta vidi la neve colorata di rosso con il sangue dei compagni colpiti dalle scariche delle mitraglie. Fu un combattimento cruento tant’è che il Comando tedesco chiamò quel cucuzzolo “Quota Cividale”». Ripiegarono il 16 gennaio, quel giorno iniziò la ritirata. «Percorremmo 1100 chilometri a piedi con più di 40 gradi sotto lo zero». Coos si accodò alla Tridentina che era più organizzata, anche lui, nelle isbe, venne aiutato dai contadini. «La gente non era contro», sottolinea spiegando che gli alpini erano partiti «per servire la Patria. Eravamo contro la guerra non per le idee politiche, bensì per le sofferenze a cui eravamo sottoposti». Coos ha cercato di dimenticare ma questa impresa non gli è riuscita. «È impossibile farlo – ripete – la guerra è assurda». Perché «morire nella steppa significava perdere progressivamente conoscenza e aspettare che i 40 gradi di freddo avessero lentamente il sopravvento». Ogni volta che vedeva un corpo coperto dalla neve Coos pensava alla mamma di quel poveretto. Lo faceva perché non poteva dimenticare l’immagine di sua madre che, dopo aver salutato il figlio in partenza per la Russa, pensando di non essere vista, piangeva e malediva la guerra.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto
Leggi anche
Video