Nella nuova Pechino tra robot di sei metri e acqua non potabile

Tullio Avoledo racconta il suo viaggio in una Cina lanciata nel futuro. Relatore emozionato a una convention mondiale sulla fantascienza

Quando alla fine di agosto ho ricevuto un invito per un convegno letterario a Pechino ai primi di novembre, per un attimo ho pensato a uno scherzo. Invece, dopo aver fatto le debite verifiche, ho avuto la conferma che l’invito era autentico. La China Association for Science and Technology m’invitava alla convention cinese di fantascienza del 2019.

A maggio avevo partecipato come relatore, a Milano, all’evento introduttivo della Biennale di Urbanistica e Architettura di Shenzhen, con una relazione sul tema delle città intelligenti del futuro.

Avevo parlato delle infinite possibilità offerte dall’incontro tra informatica e urbanistica e di quella che chiamo “la città vivente”: una città smart in grado di dialogare con i suoi cittadini e di facilitare loro la vita, ma anche di approfondire il passato e di informare, per esempio, sulla storia di un edificio e sulle persone che nel corso degli anni l’hanno abitato.

Il mio intervento era stato tradotto in cinese e diffuso in streaming. Evidentemente è piaciuto; di qui, oltre che dalle mie non infrequenti incursioni narrative nel campo della fantascienza, l’invito a Pechino per quello che nell’invito veniva poeticamente definito “Autunno dorato”.

Sul volo Aeroflot che sorvolava il deserto della Mongolia, poche ore prima dell’atterraggio, continuavo a chiedermi cosa avrebbe potuto dire uno scrittore friulano sessantenne a una platea di giovani cinesi che volevano sentir parlare di futuro.

La stessa vastità del paesaggio che scorreva sotto l’ala destra dell’Airbus – prima le steppe siberiane, poi il deserto del Gobi – mi rendeva sempre più incredulo per la mia avventura. Quando poi, nella hall dell’albergo ultramoderno che ci ospitava, ho incontrato alcuni degli scrittori di fantascienza più famosi al mondo, e ho visto passare un premio Nobel per la fisica, mi sono sentito come un vichingo nel Valhalla.

L’albergo in sé è stato un primo impatto sconcertante. Su Google Maps non appariva neppure: al suo posto si vedevano ancora il cantiere e la terra scoperta dagli scavi. L’area, a sud-ovest di Pechino, era fino a qualche anno fa una discarica, e ora è uno dei più bei parchi cittadini e ospita un auditorium da 3.500 posti: quello in cui si è svolta la cerimonia inaugurale della convention.

Nell’atrio di quell’hotel nuovo di zecca mi ha accolto la statua di un robot Transformer giallo alto sei metri, Bumblebee (che da quelle parti, per qualche motivo a me sconosciuto, spopola) e le informazioni sulla camera mi sono state fornite in inglese da un simpatico robottino.

Quando, in camera, ho chiesto dove fossero le tende, mi hanno mostrato sorridendo un pulsante che rendeva le grandi vetrate da trasparenti opache. Poi sottovoce mi hanno detto che l’acqua del rubinetto non poteva essere usata nemmeno per lavarmi i denti. Ho trovato sconcertante che gadget tecnologici futuribili, in Cina, convivano con la realtà dell’acqua non potabile, ma la scorta d’acqua minerale fornita dall’albergo compensava il disagio.

Ancora incerto su quale fra gli orologi sullo schermo del mio smartphone e i due che avevo al polso segnasse l’ora “giusta”, stordito dal jet lag sono sceso a fare la mia prima cena cinese in compagnia di alcuni fra i miei miti letterari di sempre.

Cioè, il buio fuori diceva che era una cena, anche se per il mio orologio biologico sarebbe stata ora di pranzo. Nel giro di mezz’ora ho conosciuto Ian McDonald, Robert Sawyer, James Patrick Kelly e Ken MacLeod, quattro pesi massimi della fantascienza mondiale…

A tavola, un giovane ricercatore universitario, Fan Zhang, ci ha spiegato perché il governo cinese investe somme enormi per sovvenzionare la pubblicazione di libri e la produzione di film di fantascienza ad alto budget, così come convegni come quello a cui partecipavo.

La Cina vuole passare, dal ruolo di semplice produttore di beni tecnologici per conto terzi, alla leadership mondiale nei settori dell’innovazione tecnologica. E quando dico “vuole passare” intendo dire che si sono dati degli obiettivi precisi e dei piani dettagliati per far sì che i giovani cinesi si appassionino al futuro e scelgano di iscriversi a facoltà scientifiche anziché laurearsi in marketing o in scienze bancarie.

«Abbiamo studiato cosa accomuna i più grandi innovatori della scienza e della tecnologia occidentali» ci ha spiegato il nostro ospite, «e abbiamo scoperto che da giovani erano tutti grandi lettori di fantascienza». L’embargo tecnologico di fatto imposto da Trump, paradossalmente, potrebbe ottenere il risultato di stimolare un’ondata di creatività autarchica cinese.

I primi risultati in campo letterario si sono già visti. Nel giro di pochi anni si sono affermati a livello mondiale scrittori come Liu Cixin, che nel 2015 ha vinto il premio internazionale Hugo (come dire il Nobel della fantascienza) con il romanzo “Il problema dei tre corpi” e molti altri dopo di lui, tanto che si comincia a parlare di una “età dell’oro” della fantascienza cinese.

Dopo cena, nel lounge bar dell’hotel, ho sottoposto Robert Sawyer e Ian McDonald al rito della firma dei loro libri che mi ero portato dietro dall’Italia. Ian mi è sembrato sinceramente stupito (per non dire preoccupato…) quando ha visto che dalla borsa tiravo fuori nove dei suoi romanzi, precisando che a casa ne avevo lasciati altrettanti, per via del peso.

Ma li ha firmati volentieri e la birra e la piacevole chiacchierata alle quale si sono uniti via via altri ospiti hanno aiutato a ingannare il jet lag, riuscendo quasi a convincermi che erano le undici di notte e quindi ora di andare a nanna, anziché il pomeriggio, come insisteva a dirmi il mio corpo.

Comunque credo di aver scoperto il trucco: basta invertire il pranzo con la cena e più o meno ti abitui. Ciò non toglie che la mia prima notte a Pechino sia stata abbastanza insonne.

L’unico canale straniero della tivù era, chissà perché, in spagnolo. Così ho fatto zapping nei programmi cinesi, cercando le pubblicità e filmando con il cellulare quelle più deliranti. La costante di quelle pubblicità era che rappresentavano solo ragazzi e ragazze adolescenti, dai lineamenti di cui non ho trovato l’equivalente per strada (la chirurgia plastica, mi è stato detto, esercita un richiamo irresistibile sui giovani cinesi…), intenti a ballare o saltare o muoversi freneticamente intorno a prodotti di cui non capivo la funzione e nemmeno il nome.

Poi, dato che il mattino dopo mi sono svegliato, in qualche modo devo essere anche riuscito ad addormentarmi, probabilmente sognando giovani imitatori di Michael Jackson che balzano su motoscafi rombanti sul Fiume Giallo per afferrare al volo una lattina di Coca o l’ultimo cellulare della Xiaomi.

***

Il mio primo (e sinora unico) sabato pechinese, un po’ sempre per via del jet lag, ma soprattutto a causa di certi brindisi di cui dirò più avanti, è confuso come se lo vedessi attraverso un caleidoscopio.

La mattina è trascorsa nell’esplorazione del parco attorno all’hotel, un trionfo di alberi delle specie più diverse, con edifici che imitavano, a volte con successo, architetture di tutto il mondo, compresa una moschea completa di rigogliose palme da datteri ma senza alcun ingresso. Ken MacLeod, uno dei due soli scrittori di fantascienza marxisti che conosco (l’altro è Andrew Crumey, anche lui scozzese, che anni fa ho presentato a Pordenonelegge.it) mi sembrava sempre più perplesso, dopo la visita al parco.

Nel pomeriggio siamo stati portati in centro (anche se il concetto di “centro” a Pechino è sempre discutibile…), nell’auditorium del futuristico Museo della Scienza e della Tecnologia, dove l’inglese Ian McDonald ha dato prova del suo talento istrionico.

Con l’aiuto di alcuni bambini cinesi, di una mela e di una matita, ha mostrato quanto vicina sia in realtà la Luna alla Terra, per poi affascinare il pubblico descrivendo le città che potremmo costruire nel suo sottosuolo. E gli altri relatori non sono stati da meno. Cominciavo a sudare freddo, pensando alla mia presentazione dell’indomani e a come sarebbe andata.

Alla fine dell’incontro ho fatto la mia prima esperienza con l’inflessibile organizzazione cinese.

All’uscita dal museo, che alcuni di noi per la verità avrebbero voluto visitare, siamo stati di nuovo caricati sul pullman e riportati in gran fretta, sotto un cielo livido di pioggia, all’albergo (50 minuti di viaggio, perché Pechino è davvero grande) per poter arrivare puntuali alla cena di gala.

Nonostante il traffico assurdo della tangenziale, non ho sentito nemmeno un colpo di clacson, e non ho visto un solo incidente. Le auto che sfrecciavano accanto al nostro pullmino sembravano quasi tutte nuove. Ho visto molte auto identiche a Golf e Passat ma dai nomi strani: Magotan, Lavida, Sagitar. Mi hanno spiegato che sono le Volkswagen prodotte in Cina, che però i cinesi abbienti snobbano, preferendo pagare molto di più per il loro equivalente d’importazione.

Una volta scesi a passo da comica dal nostro mezzo di trasporto, la nostra accompagnatrice insisteva per trascinarci di corsa nella sala del banchetto e ho dovuto praticamente scappare per riuscire a raggiungere un bagno per un rapido quanto indifferibile pit stop.

Tornato di sotto, mi sono seduto al mio posto, trovandolo senza difficoltà perché era l’unico rimasto libero. Ma devo dire che nessuno mi ha fatto pesare il mio ritardo di quasi 33 secondi.

La cena è stata una continua scoperta gastronomica. Il professor Wu Yan, organizzatore della convention e decano della fantascienza cinese, aveva fatto preparare per l’occasione dei piatti che i cinesi gustano solo in occasioni speciali, dei quali ci venivano via via decantate la rarità e la prelibatezza, oltre che i nomi fantastici. Ma a questo ero già preparato.

Un popolo capace di chiamare “Fenice dorata della cortigiana dell’Imperatore” delle semplici cosce di pollo, per quanto ben preparate, è decisamente portato per il marketing. Non ricordo purtroppo il nome degli innumerevoli piatti che ci venivano inarrestabilmente serviti, anche perché a confondermi c’erano i continui brindisi.

Fra parentesi, in Cina per brindare non si usa dire cin cin, ma gonbei. Se poi siete in Giappone evitate ancora di più di dire cin cin perché, stando al commensale alla mia sinistra, lo scrittore giapponese Taiyo Fujii, è una parolaccia (per i più curiosi, usando una perifrasi: un modo volgare di definire il membro virile).

Dite invece kanpai. E in Cina gonbei.

Prima di partire mi ero studiato alcune regole basilari di etichetta cinese, fra cui quella di tenere sempre il tuo bicchiere leggermente più basso di quello della persona con cui brindi, se il rango dell’altro è superiore al tuo. Non so se dopo il sesto brindisi ho continuato ad attenermi alla regola, anche perché non capivo sempre bene il rango o il ruolo delle persone che mi venivano presentate. Capivo solo che molti dovevano essere dei politici, perché si assomigliano in tutto il mondo.

A un certo punto mi è stato presentato un alto funzionario del Ministero degli Affari Futuri e la cosa mi ha messo di buon umore, perché mi sembra un gran bel nome per un ministero. In Cina il futuro esiste ancora, e viene preso davvero sul serio.

I brindisi venivano fatti con un bicchierino di grappa. Gli americani, che volevano brindare con la Pepsi, non venivano guardati troppo bene. Io invece ho ricevuto parecchi complimenti dai cinesi per la mia tenuta. Ho spiegato loro che sono friulano e che dopo anni di partecipazione al Premio Nonino sono allenato a brindare con dell’ottima grappa.

Dopo la cena ci siamo spostati nell’auditorium per 3.500 persone. Forrest Gump lo definirebbe “grandino”. Era pieno di giovani cinesi che sotto la luce azzurra dei faretti si servivano all’interminabile buffet e ascoltavano la musica di un’orchestra jazz cinese che suonava arrangiamenti di vecchi pezzi di Sinatra.

«Sembra la taverna di Mos Espa su Tatooine» ha commentato McDonald.

«O il club Obi Wan a Shanghai, nei Predatori dell’Arca Perduta» ho aggiunto io.

Ian ha annuito solennemente.

Dato che c’è un limite alla sopportazione di Sinatra, per non rischiare di sentire la versione cinese di New York, New York ci siamo rifugiati al bar dell’hotel, per chiacchierare e provare a convincere il nostro corpo che era ora di andare a dormire.

Poco a poco, si sono uniti a noi altri scrittori e alla fine mi sono reso conto che attorno a quel tavolino basso in un hotel di Pechino c’erano quattro premi Hugo e chissà quanti premi Nebula e Locus e alcuni dei più talentuosi giovani scrittori della fantascienza internazionale. Solo la grappa mandata giù nei brindisi mi ha impedito di sentirmi fuori posto.

Mi sono alzato con la scusa di andare a limare il mio discorso per il giorno dopo. Poi, rientrato in camera, ho deciso che non era una scusa e mi sono messo al lavoro di brutto.

Non so come e a che ora mi sono addormentato. So che al mattino, svegliandomi, sullo schermo della tivù dal volume azzerato c’era una pubblicità cinese di uno scoiattolo, o di una nave spaziale, o forse di entrambe le cose.

Ed era il mattino del mio personale Giorno del Giudizio. —

(1-continua)


 

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