Oliva: «Foibe ed esodo, la storia negata del confine orientale»

La lezione ai ragazzi del Volta e del Bearzi: «Le vittime svanivano come i desaparecidos in Argentina»
Udine 30 Aprile 2014. Convegno sulle foibe in sala Scrosoppi. Foto Copyright Agenzia Petrussi Foto Press Udine
Udine 30 Aprile 2014. Convegno sulle foibe in sala Scrosoppi. Foto Copyright Agenzia Petrussi Foto Press Udine

UDINE. «Gli infoibati come i desaparecidos argentini». Gianni Oliva, storico e giornalista, si serve di un parallelismo, ieri, per spiegare ai ragazzi degli istituti Volta e Bearzi una grande tragedia del Novecento. E nella sala Scrosoppi di viale Ungheria non vola una mosca perché quelle vicende riguardano tante famiglie friulane e in molti hanno sentito per la prima volta raccontare gli anni dell’esodo.

«Non sappiamo esattamente quanti sono gli infoibati – ricorda lo storico –, la stima oscilla fra gli 8 e i 12 mila italiani scaraventati in quelle voragini naturali dall’esercito jugoslavo del maresciallo Tito che aveva occupato Trieste e una parte dell’Istria alla fine della seconda guerra mondiale». L’origine si situa molti anni prima. «Siamo negli anni Venti quando Trieste si ferma davanti all’incendio dell’hotel Balkan – aggiunge Oliva –, un incendio doloso contro la sede della casa della comunità slovena. È in quegli anni che si comincia a imporre la lingua italiana, insomma, si cominciano a minare le fondamenta di una collaborazione andata avanti per secoli».

I mesi passano, cadono le bombe e Tito punta al confine jugoslavo sul fiume Isonzo. «Trieste diventa Trst – spiega lo storico –, ma è una sorte comune a tutta l’Istria. È a quel punto che comincia l’infoibamento. Perché serviva che in quella zona non ci fosse più nessuno a rivendicare l’italianità: eliminano il Comitato di liberazione nazionale del Friuli Venezia Giulia, eliminano ex fascisti, eliminano tutte le persone che rappresentano lo Stato, gli insegnanti delle scuole e persino i postini». Ma ecco il parallelismo con i desaparecidos: «Come in Argentina le persone venivano spesso prelavate la notte, portate in caserma e poi non se ne sapeva più nulla – ricorda Oliva –. I parenti andavano alla caserma più vicina, chiedevano notizie e venivano rimbalzati. Senza una risposta, senza avere idea di dove fossero finiti i loro cari». Erano stati fucilati sull’orlo delle foibe, le fosse carsiche. «Molti cadevano là dentro ancora vivi, trascinati dai compagni cui erano legati», dice lo storico. «Tutto termina il 12 giugno 1945, dopo che Stalin per la Russia, Churchill per la Gran Bretagna e Truman per gli Stati Uniti stabiliscono il nuovo confine su quella linea Morgan che sostanzialmente è il confine attuale – sottolinea Oliva –. Un confine provvisorio tracciato sulla cartina che non tiene conto di meridiani e paralleli, nemmeno degli insediamenti umani». Alla fine quella linea non dà ragione a Tito, «ma accorda i quattro quinti delle pretese espansionistiche della Jugoslavia... Ecco perché a questo punto non c’è più necessità di infoibare nessuno».

A quel punto però scatta il lavoro sotterraneo di esclusione degli italiani dalla vita della Jugoslavia. «Tutte le opportunità di lavoro sono off limits – spiega Oliva –, non c’è più spazio. E quindi piano piano la gente se ne va. Ma negli esuli resta un senso di svuotamento progressivo, perché è una scelta che rimpiangeranno per tutta la vita. Se ne andarono tutti, tranne quelli che erano così poveri da non potersi portare dietro la loro miseria. L’esodo fu una scelta che per tutta la vita ha determinato un dubbio. Anche perché arrivati in Italia trovarono un paese appena uscito dalla guerra». Quella delle foibe è stata una vicenda a lungo rimossa. «Tito – chiosa Oliva – era considerato un interlocutore dopo che ruppe i rapporti con Stalin: è il motivo che determina il silenzio internazionale».

Michela Zanutto

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