Ottant’anni dall’eccidio di Porzûs: nei nuovi documenti le responsabilità del comando della Garibaldi Natisone

La vicenda è stata ricostruita da Tommaso Piffer, storico dell’Università di Udine. Le uccisioni dei partigiani della Osoppo da parte dei Gap comunisti furono il più grande scontro interno al movimento resistenziale

Andrea Zannini
Il Comando della divisione Garibaldi Natisone con alcuni componenti della missione sovietica e del IX Corpo sloveno (Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli- Aorf. Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Udine)
Il Comando della divisione Garibaldi Natisone con alcuni componenti della missione sovietica e del IX Corpo sloveno (Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli- Aorf. Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Udine)

Ottant’anni fa, il 7 febbraio del 1945, alle malghe di Porzûs sopra Udine, ebbe luogo il più grave scontro interno al movimento resistenziale. Una spedizione dei GAP comunisti uccise diciotto partigiani della brigata Osoppo: quattro sul posto, gli altri, tra cui Guido, il fratello minore di Pier Paolo Pasolini, nei giorni seguenti, nei pressi di Cividale del Friuli.

A dispetto della sua importanza storica e delle polemiche che ha sollevato, l’eccidio di Porzûs ha tuttavia raccolto un numero limitato di ricerche storiche originali. Se i principali esecutori materiali dell’eccidio vennero subito individuati e condannati, primo fra tutti il comandante della spedizione, il gappista Mario Toffanin, si discute, invece, ancora su chi siano stati i mandanti e ancor più i responsabili politici e morali delle uccisioni.

Il volume Sangue sulla resistenza. Storia dell’eccidio di Porzûs (Mondadori), dello storico dell’Università di Udine Tommaso Piffer, in uscita in questi giorni, costituisce il più importante e innovativo studio da molti anni a questa parte. Piffer non solo ricostruisce in modo minuzioso gli avvenimenti e il contesto in cui si svolsero – ad esempio la delicata questione dei contatti dell’Osoppo con i fascisti – ma presenta alcuni documenti inediti, provenienti dagli archivi della ex Jugoslavia, che cambiano la percezione di quei fatti.

Le prime informazioni precise sulla spedizione gappista, e sul destino degli osovani uccisi subito e di quelli portati a valle e fatti sparire, quasi tutti ex carabinieri e giovani di vent’anni, si ebbero solo a guerra finita. Partirono quindi le denunce, le indagini e i processi che si trascinarono fino al 1957, con il coinvolgimento diretto di Pci e Dc a difesa e accusa degli imputati. Ne uscirono condannati a varie pene praticamente tutti i principali responsabili dell’eccidio, molti dei quali tuttavia erano subito riparati nei paesi socialisti.

Ma la controversia sul senso politico della strage ha faticato a spegnersi. Il PCI sostenne a lungo la tesi secondo cui era stata un colpo di testa di Toffanin, fanatico e violento, che aveva mal interpretato l’ordine di dare una lezione al gruppo dell’Osoppo. La prima sentenza della Corte d’Assise di Lucca individuò invece il movente nell’odio politico dei dirigenti della Federazione comunista di Udine verso l’anticomunista De Gregori: odio che li avrebbe spinti a ordinare l’eliminazione del battaglione dell’Osoppo, senza tuttavia aver voluto favorire, con ciò, il passaggio di territorio italiano alla Jugoslavia.

La successiva sentenza della Corte d’Appello di Firenze riconobbe invece tra i responsabili il commissario politico della divisione Garibaldi Natisone Giovanni Padoan, rinviando però il giudizio sull’accusa di attentato all’integrità territoriale dello Stato; una questione che fu però presto chiusa da un’amnistia. Sarebbe stato invece questo, secondo la tesi portata avanti nel tempo dall’Associazione Partigiani Osoppo, il motivo per il quale fu soppresso il gruppo di Francesco De Gregori, che avrebbe quindi eroicamente difeso i confini nazionali.

Da più parti, infine, si è sostenuto che il comando alla strage sarebbe provenuto dal IX Corpus sloveno, che avrebbe agito attraverso un suo uomo, il Toffanin appunto, portatore di una concezione della guerra di resistenza che apparteneva alla realtà jugoslava, non a quella italiana.

I nuovi documenti su cui si basa Sangue sulla resistenza tagliano il nodo gordiano delle responsabilità. Addossano al comando della Garibaldi Natisone la genesi dell’operazione, che sarebbe stata decisa nell’autunno 1944, e di cui tenne quindi le fila la federazione udinese del Pci. Piffer approfondisce il lungo, tormentato processo che portò i dirigenti della formazione partigiana alla difficile decisione se assecondare la richiesta slovena di eliminare ogni possibile elemento di disturbo alla futura occupazione dell’area di confine, o privilegiare invece l’unità del fronte antifascista nazionale.

Ed essi, lasciati soli dal Pci nazionale, impegnato a mantenere contemporaneamente gli impegni del comunismo internazionale e la politica nazionale inaugurata con la svolta di Salerno, decisero di far uccidere i compagni partigiani al cui fianco avevano combattuto fino al giorno prima. È un libro destinato a far discutere, questo di Tommaso Piffer: un saggio di onesta revisione storica, cioè della pratica di rileggere il passato sulla base di nuove ricerche, pubblicando la nuova documentazione individuata, avanzando tesi precise esposte in modo chiaro, prendendo posizioni nette, magari scomode, ma senza timore. 

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