Piero Badaloni si racconta: «Le mie Dolomiti sono un affare di cuore»
Lo scrittore a Udine per i 6 film realizzati con la Fondazione Unesco. Prossimamente i dvd con il Messaggero Veneto

«Probabilmente la prima volta che ho visto le Dolomiti, quelle magnifiche della Val di Fassa, risale a quando ero veramente piccolo» racconta il giornalista, documentarista e scrittore Piero Badaloni, autore del reportage “Dolomiti. Montagne-Uomini-Storie”. «I miei genitori ci portavano a Soraga, in Trentino, ogni estate e la Val di Fassa non è solo diventata, in qualche modo, la mia seconda casa, ma mi ha insegnato ad apprezzare e amare la straordinaria bellezza di tutte le Dolomiti divenute patrimonio dell’Umanità. Peraltro anche i genitori di mia moglie, Maria Novella, facevano lo stesso, tant’è che la nostra storia d’amore si è consolidata sulle ferrate dolomitiche. Non solo, - prosegue Badaloni - da ormai più di 40 anni insieme a un gruppo di amici storici, ogni estate, facciamo quello che per noi è il “giro dei rifugi”, sempre scegliendo come meta, le Dolomiti. La loro straordinaria bellezza ha stimolato l’Unesco a riconoscerle patrimonio dell’Umanità, ma cattura l’anima, il cuore e la mente di centinaia e centinaia di migliaia di persone e, forse di più, coloro che come noi vivono in città distanti da tanta bellezza paesaggistica. Per di più, i rifugi sulle Dolomiti sono numerosissimi, 66 solo nel cuore Unesco, più tutti quelli che stanno alle pendici delle vette più belle del mondo».
Piero Badaloni, con l’entusiasmo che lo contraddistingue nella professione e nella vita, racconta volentieri della sua “vita dolomitica” e gli aneddotti che in tanti anni di frequentazione ha accumulato sono davvero numerosi. Lei ha tre figli e alcuni nipoti, la passione dolomitica ha contagiato anche loro? «Come no, tantissimo. Sia Federico, mio figlio più grande, sia Daniele e Chiara, amano fare le loro vacanze sulle Dolomiti e i miei nipoti, i più grandicelli, fanno a gara per imparare meglio i rudimenti dell’arrampicata».
Quali sono stati i suoi maestri? «È buffo, sono tre e si chiamano tutti Toni: Valeruz, il magnifico interprete dello sci estremo, Rizzi, grande guida alpina, maestro di soccorso alpino e cercatore di minerali dolomitici fra i più accaniti e fortunati; e Gross, scultore e guida alpina». Una bella fortuna.«Assolutamente e pensi che con due di loro, Toni Gross è mancato, è rimasto un rapporto di amicizia e di stima reciproca».
È un Piero Badaloni in veste “privata”, quello dolomitico? «Sì, almeno fino a poco prima della realizzazione dei documentari». Ci sono episodi delle sue vacanze dolomitiche che le sono rimasti particolarmente nel cuore? «Tanti direi, a partire da una impegnativa e divertente avventura per la manutenzione dei sentieri del Latemar, parliamo di più di quarant’anni fa. Con tre amici, due tende, due bidoni colmi di vernice, una rossa e una bianca e quattro pennelli salimmo al cospetto del Latemare, dall’altipiano partimmo per ripristinare i segnali dei sentieri. Un’esperienza bellissima che ricordo ancora con grande emozione. E poi la prima discesa con gli sci d’alpinismo da Passo delle Selle, sopra a San Pellegrino, verso la fantastica Valle dei Monzoni, facendo slalom fra un albero e l’altro: magnifico. Un’emozione fantastica che rivivo ancora come se l’avessi appena vissuta. La vorrei rifare almeno una volta all’anno».
Con Valeruz ha mai fatto nulla? «Una delle esperienze che ricordo con maggior entusiasmo è la discesa con gli sci della Val Lasties, strepitosa». Si è mai cimentato con l’arrampicata? «La mia prima via di roccia l’ho fatta sulla Torre Finestra, accanto alla Roda de Vael. Ma con mia moglie e i miei figli abbiamo percorso moltissime ferrate nelle Dolomiti di Fassa, ma anche nelle Dolomiti bellunesi come, per esempio, la spettacolare via degli Alleghesi». E le Dolomiti friulane? «Sono quelle che ho scoperto per ultime attratto soprattutto dalla loro bellezza selvaggia e lì ho organizzato l’ultimo “giro dei rifugi”, insieme agli amici di sempre».
Il reportage è stato un lavoro piuttosto lungo... «Due mesi di riprese e interviste, oltre ottomila chilometri percorsi con una “Pandina”, 98 interviste e l’incontro con tante, tante, davvero tantissime persone, “gli abitanti dell’arcipelago”, come li definisco io. Il lavoro di montaggio di immagini e interviste è durato qualche bel mese. Ciò che mi ha dato e mi dà soddisfazione è che il reportage è stato accolto con molto entusiasmo dalla Fondazione e, soprattutto, da chi ha avuto modo di vedere i documentari. La Rai, sul canale tematico di Rai Storia, li sta continuando a trasmettere, credo che ormai li abbiano programmati almeno 10 volte».
Che cosa le hanno insegnato gli “abitanti dell’arcipelago”? «Già da quando ero ragazzo ammiravo estasiato la cura per il territorio, i dolomitici curano non solo la propria casa, ma tutto ciò che sta intorno al proprio luogo di residenza e questo credo abbia origini antiche. Non a caso, infatti, esistono le Regole, le norme che regolavano, appunto, e per certi versi ancora lo fanno, la vita collettiva di chi vive ai piedi dei “Monti Pallidi”. Trovo ammirevole come funzionino ancora molto bene e anche che alcune delle Regole dolomitiche abbiano concesso uguale diritti a uomini e donne. Per centinaia e centinaia di anni non è stato così. Nei dolomitici c’è ancora la propensione a pensare al bene comune. Non è una cosa da poco».
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