Pietro il contadino di Nimis vessato Domenica la madre avara e cattiva: un delitto che si chiude con l’assoluzione

estate 1885
Come tutte le sere, Pietro e sua madre Domenica sedevano a tavola dividendo cibo e silenzio. A 30 anni suonati, quel contadino di Nimis era trattato dall’anziana vedova come un mentecatto e così, mortificato ogni santo giorno, l’uomo si consolava al tavolo dell’osteria, “affogando rospi” e accarezzando il sogno di libertà.
Conoscendo Domenica Comelli, era chiaro che con la vecchiaia tutto sarebbe scemato, meno che l’avarizia. Ma questo assioma era pure il giogo che, da mane a sera, trascinava Pietro Micossi allo sgobbo nei campi, strozzandolo sempre di più. L’estate del 1885, dunque, fu per lui il tempo dell’eversione, perché l’odio che provava per la madre aveva raggiunto il suo acme. Ed è a questo punto che entrò in gioco il cugino Francesco Comelli, giovane soldato della Settima Compagnia Alpina.
Ma a questo punto della storia, i fatti li possiamo soltanto ipotizzare.
Al tavolo dell’osteria, il folle disegno era, per Pietro e Francesco, fin troppo semplice: entrare a casa a tarda sera, accoppare la vecchia e tornare al paese per un brindisi.
Una notte di fine giugno, lì in aperta campagna il cielo sembrava un velluto nero incastonato di diamanti. Ma era difficile capire da dove venisse il buio calato sulla pianura, se piombava giù dal firmamento o risaliva, invece, dalle forre per l’inferno. Si dice che i cugini fossero entrati in casa della vedova e l’avessero straziata con una lama affilata. Infine, le avessero inflitto il colpo mortale trapassandole un polmone. Già, si dice, perché al processo non fu esibita prova alcuna a danno degli imputati. Si trattò di udienze fiume, che videro salire al banco oltre cento testimoni, quattro periti medici, un perito chimico e, tanto per non farsi mancare nulla, perfino due periti agrari. Il 2 luglio fu organizzata anche una “gita” sulla scena del crimine che vide avanzare, in fila indiana, il presidente della Corte, il Pubblico Ministero, il Cancelliere, gli avvocati della difesa e perfino l’usciere, e tutti, preceduti dai due imputati scortati dai Reali Carabinieri. Ma anche dal sopralluogo ben poco emerse. Il 3 luglio riprese il processo, la condanna sembrava essere nell’aria, ma colpo di scena, le magistrali arringhe degli avvocati difensori convinsero i giurati a sentenziare la piena assoluzione.
Forse avevano ragione i cugini: il loro folle disegno era di una tremenda semplicità. Nessuno ebbe mai la certezza della loro colpevolezza o della loro innocenza. Ma se i fatti si svolsero come ipotizzato, una cosa è certa: Pietro non conquistò mai la tanto agognata libertà, perché i fantasmi degli uccisi infesteranno sempre i passi del loro assassino. —
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