Prigionieri della Grande Guerra: dopo Caporetto a Mauthausen

PAOLO MEDEOSSI
L’orrore dei lager nazisti (e non solo), esploso durante la seconda guerra mondiale, ebbe le premesse durante la prima quando venne definito “universo concentrazionario” quel pianeta separato che non aveva altro orizzonte se non le recinzioni e le barriere in cui venne ristretta un’umanità sofferente di nemici veri o presunti, militari e spesso anche civili, internati per le più diverse ragioni.
Popolazioni dei villaggi posti in Friuli lungo il confine tra Italia e impero asburgico vennero deportate dall’una e dall’altra parte andando ad affollare i grandi complessi di baracche, vere e proprie città di legno nelle quali trascorsero anni durissimi, dovendo sopravvivere a violenze e malattie.
Storie poco note al cospetto di quelle che raccontano strategie e gesta belliche famose, ma emergono un po’ alla volta, un secolo dopo, grazie a saggisti e ricercatori. E fanno capire come chi, a livello politico diplomatico, militare, causò l’immane conflitto non seppe valutarne le conseguenze.
Si aspettavano forse un “normale” scenario bellico stile Ottocento e invece dovettero confrontarsi con un mostro terrificante. Nelle loro mani incaute esplose il problema di come trattare i prigionieri di guerra, che dovevano essere garantiti dalla convenzione dell’Aja, accordo firmato da 44 Stati, ma in pratica le cose andarono diversamente. Basta pensare che solo la Germania, durante le sue offensive, fece ben presto un milione di prigionieri e dovette affrettarsi a distribuirli a casa propria con uno sforzo ferroviario gigantesco.
Per quanto riguarda gli italiani, è stato calcolato che i nostri catturati tra il ’15 e il ’18 furono circa 600mila, metà dei quali dopo Caporetto, e molti vennero rinchiusi a Mauthausen (nome divenuto tristemente noto nel periodo nazista). Va anche ricordata la falcidia di prigionieri austro-ungarici presi dai serbi e poi in parte consegnati in condizioni drammatiche all’Italia, più della metà dei quali deceduti di colera nel campo dell’Asinara in Sardegna.
Pure l’Italia fu colta alla sprovvista dopo essere entrata in guerra nel 1915 dovendo allestire enormi baraccopoli per rinchiudere i nemici presi sul Carso e in Trentino che superarono i 150 mila, per raddoppiare nella fase conclusiva.
I nuovi concentramenti sorsero soprattutto nel Sud lungo la linea ferroviaria tirrenica, arrivando fino in Sicilia. E lì i reclusi furono utilizzati per eseguire lavori che continuarono pure nel 1919, prima dei rimpatri.
Su questa realtà getta una luce nuova, fornendo notizie inedite, un libro pubblicato dall’editore Gaspari di Udine che alimenta di continuo la sua collana dedicata al conflitto d’un secolo fa.
Alberto Monticone, docente di Storia moderna e uno dei maggiori studiosi di quel periodo, ha scritto “La prigionia nella Grande Guerra. Dai documenti della Santa Sede, della Croce rossa e delle organizzazioni umanitarie” (270 pagine, 22 euro) dove svela quanto c’è nello straordinario archivio del Vaticano, dove nacque un centro di smistamento di informazioni per soccorrere i prigionieri di tutte le nazioni. Dopo avere tentato di fermare “l’inutile strage”, papa Benedetto XV decise di fare questo collaborando con Bellamy Storer, ex ambasciatore americano. Ne esce un quadro documentato su un universo finora ignorato, mostrando le stazioni di quel calvario che Carlo Emilio Gadda narrò così nel diario di prigionia: «Qui mi sento finito. Potrei oggi compiere l’ultima buona azione della mia vita facendomi bersaglio d’una fucilata tedesca». –
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