Quando Elvis regalò i suoi Ray Ban per uno spartito ...
Leggio gli donò la partitura di Santa Lucia Domani sera spettacolo alla Terrazza di Lignano

A chi mi chiede perché lo chiamo Lui do sempre la solita risposta: ha un nome talmente inflazionato che da solo riempie la bocca. A metà anni Cinquanta avevo 12 anni e studiavo questo bianco dalla voce nera come a scuola studiavo l’aritmetica, privilegiandone però l’aspetto umano; il lato B per capirci, non il lato A che scalava le classifiche.
Lo facevo attingendo notizie dalle pagine dei giornali che stracciavo e intingevo nell’acqua di una secchia per trarne tonde palle cartacee da usare come combustibile nella cucina economica al posto della legna, del carbone e della segatura dai costi proibitivi per una famiglia che stentava ad arrivare a fine mese. La radio a valvole, un catafalco panciuto come un Budda, a quel tempo propinava nenie mortali del tipo Come pioveva, Grazie dei fior, E la barca tornò sola, interpretate da Achille Togliani, Nilla Pizzi e Gino Latilla. È grazie al Discobolo, la trasmissione radiofonica ideata e condotta da Vittorio Zivelli, se anche nel Bel Paese giunge quella che una certa stampa definisce “la musica del diavolo”.
Capostipite dei cantanti bianchi che rubano la musica ai neri è un povero campagnolo nato nel profondo sud degli States che, entrato di prepotenza nel pentagramma musicale, a soli 21 anni diventa una leggenda. Abbigliamento stravagante, ciuffo imbrillantinato sulla fronte, presenza scenica fortemente erotica, mentre canta percuote le corde della chitarra che imbraccia con tale veemenza da farle saltare, sottolineando il tempo con tutto il corpo. Dopo la sua prima apparizione in uno show televisivo scoppia il finimondo: mentre l’isteria collettiva suscitata nei teenagers statunitensi che si riconoscono in Lui è senza precedenti, bacchettoni e benpensanti si rivolgono alle alte sfere, ottenendo che gli addetti alle telecamere abbiano l’ordine di riprenderlo dalla cintola in su, pena la perdita del posto di lavoro. Ne consegue che i disk-jokey rompono in diretta i suoi dischi, gran parte dei governatori bandiscono i suoi spettacoli dal vivo, i predicatori durante le funzioni religiose coniano il termine Presleymania come fosse una bestemmia. Dopo una seconda esibizione televisiva, un famoso giornalista milanese scrive sul democristiano Il Popolo: «Su un programma che va in onda in tv ogni sabato sera a New York ho visto un cantante. Portava una camicia rosa e pantaloni talmente attillati da sembrare dipinti. Sui 75 chili, volto insignificante, liscio, che non si fa ancora la barba. Il suo successo? Non ci sono in lui ragioni; egli non sa né cantare né suonare. È un esagitato capace soltanto di dimenare le anche e di lanciare rozzi messaggi di sesso e violenza. Per fortuna tra breve non ne sentiremo più parlare».
Malgrado stampa, psicologi, tuttologi, genitori e religiosi si scaglino contro questo volgare giovanotto di Tupelo, e quanto di deviante rappresenti per le generazioni del dopoguerra, il sasso è gettato e la più grande rivoluzione musicale del secolo è in atto. Il fenomeno si espande a macchia d’olio a livello planetario, toccando anche l’Unione Sovietica dove le sue incisioni vengono contrabbandate su lastre schermografiche al prezzo astronomico di diecimila lire l’una. Fino al’58 Lui sforna un disco dopo l’altro e ogni pezzo, prenotato per milioni di copie prima ancora di uscire, gli frutta un disco d’oro, il più alto riconoscimento in campo musicale. Nel marzo di quell’anno viene chiamato dallo Zio Sam, diventando la recluta US53310761, di stanza in Germania con l’unico privilegio di dormire fuori dalla caserma. Ed è lì che dopo un drammatico incidente costato due giovani vite, incrocia un quindicenne udinese che gli regala lo spartito musicale di Santa Lucia, ricevendone in cambio i suoi Ray-Ban. Rientrato Oltre Oceano nel ’60, Lui fa una comparsata a fianco di Frank Sinatra, dopodiché esce di scena per mettersi a girare una media di tre pellicole all’anno, abbinate ad altrettante colonne sonore che nulla hanno a che vedere con quanto inciso finora.
Il ’68 è l’anno del gran ritorno, come lo definisce la stessa stampa che lo aveva censurato agli esordi. La sera del 3 dicembre va in onda lo special televisivo sponsorizzato dalla Singer, la marca delle macchine da cucire. Riproporsi in pubblico dopo sette anni di assenza rischia di trasformarsi in un patetico tramonto; può sembrare il disperato ritorno sul ring di un boxer suonato. E invece lo special non rappresenta soltanto un episodio memorabile per la sua carriera, ma lo conduce a una svolta decisiva. Dire che i critici si esprimono in termini favorevoli è riduttivo: il New York Times arriva a definirlo carismatico. Inutile dire che l’album tratto dallo show guadagna un ennesimo disco d’oro, e in Inghilterra, dove lo special viene mandato in onda la sera di Capodanno, i lettori del New Musical Express lo eleggono miglior cantante dell’anno. Dal ’69 in poi riprende a esibirsi in pubblico, tenendo una media di 170 concerti all’anno. Il 14 gennaio del ’73 viene trasmesso via satellite Aloha From Hawaii; lo show mandato in mondovisione inchioda davanti ai teleschermi un miliardo e mezzo di telespettatori e l’incasso, un miliardo di dollari, viene devoluto per la ricerca del cancro. Stanco, sfatto, gonfio di specialità mediche assunte per sostenere i ritmi, il 26 giugno del ’77 tiene il suo ultimo concerto a Indianapolis, davanti a 18.000 spettatori accorsi con la segreta speranza di vederlo morire in diretta. Spremuto fino all’ultima goccia di sudore per il tornaconto delle sanguisughe che gli stanno appiccicate addosso, Lui muore il 16 agosto. Due soli dati: la bara non è ancora stata calata nella fossa che le esequie vengono commercializzate come un normale dvd. Cinque giorni dopo, sulla copertina del National Enquirer appare in esclusiva la foto del corpo steso nella bara aperta. Autore dello scatto fatto con una Minox nascosta nella manica (per 18. 000 dollari) il cugino Bobby Mann.
Riposa in pace, Elvis. E grazie ancora per gli occhiali.
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