«Quel viaggio nella memoria per registrare la sua biografia»

C’è uno scritto in cui Giuseppe Zigaina racconta di sé ragazzo, in un giorno d’estate. Da Cervignano raggiunge Aquileia in bicicletta ed entra, solo, nella Basilica patriarcale. Scende nel buio della...
Di Francesca Agostinelii

C’è uno scritto in cui Giuseppe Zigaina racconta di sé ragazzo, in un giorno d’estate. Da Cervignano raggiunge Aquileia in bicicletta ed entra, solo, nella Basilica patriarcale. Scende nel buio della cripta romanica e guarda fuori da una finestrella per orientarsi nel territorio.

Da questo buio, da questo dentro, vede allora nell’ombra, sotto i cipressi, stagliarsi contro un muro di cinta le croci di ferro del piccolo cimitero della prima guerra mondiale; oltre, alla luce, nel perdersi delle geometrie degli arativi, crede di vedere sino all’Isonzo e oltre ancora sino le prime rocce del Carso. Poi si volge e torna nel suo buio, nel suo dentro. Con lo sguardo, cerca a fatica sulla parete di levante l’affresco della Deposizione e «come in sogno», dice, «perché solo in sogno si riesce a vedere un albero dalla parte delle radici», vede il Cristo crocefisso e le Dolenti di derivazione bizantina. Poi improvvisamente, sulla sinistra del Cristo coglie una figura maschile isolata, solidale e triste, come un onesto artigiano. E «non so perché – scrive – mi venne in mente mio padre».

Perché evocare questo racconto di gioventú per ricordare un uomo che ha fatto cosí tanto nella sua vita; un uomo la cui pittura è nella storia come nei musei del mondo e che costituisce nel contemporaneo uno dei lasciti piú alti, una eredità tra le piú grandi, come testimonia la sua presenza nei libri di storia dell’arte destinati alle scuole italiane? Forse perché indica le ragioni profonde della sua pittura e insieme l’orizzonte vasto del suo pensiero, l’amore per la gente, il senso della storia. Tutto ciò insomma che nutre la sua vicenda umana, il suo essere culturale ed esistenziale, la sua pittura, in un groviglio inestricabile, che si legge nelle prime grandi “Crocifissioni” fino ai “Verso la laguna”, in tutta insomma la sua produzione pittorica, in seguito unita all’attività grafica che ha reso Zigaina il grande acquafortista a livello internazionale. Ma il testo, pubblicato in “Mio padre l’ariete”, dice anche un mondo di memoria che Zigaina sosteneva attraverso la parola, parola scritta, ma anche attraverso il racconto testimoniato da chi, come me, ebbe la fortuna di ascoltarlo in incontri d’incredibile profondità culturale e umana. Era iniziata cosí, con una telefonata: avevo bisogno di una sua intervista. Ci incontrammo nella sua grande casa di Cervignano. Ad aprire la porta era la signora Maria, dolcissima nell’accogliermi e condurmi nello studio del Maestro, dove Zigaina mi raccontò della prima biennale del dopoguerra cui aveva, ragazzo, partecipato. Poi fu il maestro a richiamare e cosí iniziò un percorso di raccolta di memoria che non terminò per i motivi che ora conosciamo. Però ricordo un giorno, in cui, nella mia semplicità, gli chiesi “ordine”. Pretendevo cioè di organizzare quel tumulto di segni, di memoria, di vita in una stesura lineare, direzionale, conseguente. «Vedi – mi disse allora Zigaina – tu mi chiedi di andare in ordine, ma per raccontare una storia, quella della propria vita poi, non puoi seguire un ordine, tantomeno cronologico. Ci sono in noi infiniti segni che si sono incisi e la memoria opera tra questi scegliendo misteriosamente, forse secondo il senso che uno vorrebbe dare alla propria esistenza».

È per questo forse che, quando Zigaina compí 90 anni, fui decisa nel proporre un’iniziativa legata al suo mondo di segni, quelli incisi. Che parlavano di un “Paesaggio come anatomia”, in un’identificazione tra l’esistenza personale e un territorio di cui molto Zigaina aveva compreso oltre il dato sensibile. Forse vidi in lui l’uomo di Borges che disegnava il mondo. E che, dopo aver speso la propria vita a disegnare regni e montagne, navi e aggiungo Lagune e Campi dell’arciduca, operai e uomini anfibi, aveva scoperto, poco prima di morire, che quel paziente labirinto di linee altro non tracciava che l’immagine del suo volto.

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