Quell’onorificenza a Tito: ma il maresciallo è morto andrebbe riscritta la legge
Fa discutere la proposta della destra di annullare il titolo. Il cavalierato “di Gran Croce” era stato concesso nel 1969

Dopo aver tuonato anni contro la “cancel culture” che vuole riscrivere la storia cancellando le sue storture, la destra se ne fa paladina e chiede di annullare il titolo di cavaliere al merito della Repubblica a Josif Tito.
I parlamentari di Fratelli d’Italia Tommaso Foti, Walter Rizzetto e la deputata triestina Nicole Matteoni hanno depositato una proposta di legge per inserire nell’ordinamento italiano la possibilità di revocare le onorificenze concesse dal presidente della Repubblica, facendo riferimento a quella appuntata nel 1969 sul petto del maresciallo Tito, “sanguinario dittatore comunista jugoslavo”. Cambiare la legge del 1951, che ha istituito i titoli onorifici della nuova Repubblica, è infatti indispensabile: ai sensi della stessa, incorre infatti nella perdita dell’onorificenza “l’insignito che se ne renda indegno”. Il tempo del verbo è inequivocabile.
Non a caso, a un tentativo precedente di revocare il riconoscimento al maresciallo jugoslavo qualche anno fa un prefetto, per conto del governo, ha risposto, non senza sense of humour, che la cosa era impossibile perché Tito da morto non poteva presentare una memoria a sua difesa.
Il medesimo cavalierato “di Gran Croce decorato di Gran Cordone” concesso a Tito nel 1969 è stato revocato nel 2012 a Bashar Al-Assad, dopo un’interpellanza parlamentare firmata da senatori di tutti i gruppi. Ma il discusso presidente siriano, che in questi giorni vediamo alla televisione visitare le aree terremotate, era vivo e vegeto, ed energicamente attivo nel reprimere ogni opposizione interna con qualsiasi mezzo, armi chimiche comprese.
L’assegnazione dell’onorificenza a Tito avvenne nel corso nella visita ufficiale del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat a Belgrado nell’ottobre 1969.
I rapporti tra Italia e Jugoslavia erano allora ormai consolidati. La questione Trieste, la più calda vertenza internazionale italiana nel 1945, si era da tempo raffreddata. Il memorandum di Londra del 1954 aveva cristallizzato la situazione già decisa da americani, inglesi e sovietici subito dopo la guerra, Trieste era diventata pienamente italiana e il fronte occidentale aveva tutti gli interessi ad avere buoni rapporti con la federazione jugoslava.
Durante la guerra Tito era stato scelto da Roosevelt e Churchill come alleato per sconfiggere l’esercito italo-tedesco che aveva invaso i Balcani. Era stato preferito, d’accordo con Stalin, al nazionalista anticomunista Draža Mihailović, e infatti la capacità di mobilitazione dell’esercito da lui guidato si rivelò decisiva per la liberazione di questa parte d’Europa.
L’instaurazione del regime jugoslavo avvenne però tra repressioni e vendette. Tra Venezia Giulia, Istria e Dalmazia decine di migliaia di persone furono arrestate, inviate nei campi di concentramento o fucilate e fatte sparire nelle foibe: circa 10 mila sloveni domombranzi, 60 mila croati ustascia, cioè collaborazionisti dei nazisti, e alcune migliaia di italiani. Gli italiani che vivevano nei territori dell’Istria, della Dalmazia e della Venezia Giulia, ormai passati definitivamente sotto la Jugoslavia dopo il Trattato di pace del 1947, furono costretti a scegliere: in centinaia di migliaia abbandonarono case, attività, la loro patria per non tornarvi mai più.
Mentre l’esodo era in pieno svolgimento, nel giugno 1948 la Jugoslavia fu espulsa per deviazionismo dal Cominform, cioè dal blocco sovietico in via di costituzione. Per l’Occidente fu manna dal cielo. Tito, l’alleato inatteso, inaugurò il “socialismo con grano americano” accogliendo quei milioni di dollari Usa senza i quali la Jugoslavia ridotta alla fame non si sarebbe ripresa.
Da parte italiana venne messo il silenziatore all’esodo e si rinunciò a chiedere di processare i responsabili dei crimini delle foibe in cambio del silenzio sui responsabili dei crimini italiani contro i civili durante l’occupazione italiana. Protagonista di questa abile operazione politica internazionale furono i governi della Democrazia Cristiana, che firmarono il Trattato di Pace del 1947 (De Gasperi), il memorandum di Londra (Scelba) e il Trattato di Osimo (ministro degli esteri Mariano Rumor).
L’unico a battersi contro esodo e foibe, in tempi non sospetti, fu il Movimento Sociale Italiano, che a Trieste raggiungeva nelle elezioni consensi a due cifre.
Se non fosse che i suoi fondatori e dirigenti erano quasi tutti reduci della Repubblica di Salò, dunque di quella parte politica che aveva causato la Seconda guerra mondiale ed era alla radice di quei drammi.
Riscrivere la storia con il senno di poi e utilizzarla strumentalmente per fini politici può forse portare qualche voto ma non è operazione utile a una società democratica.
Le statue dei despoti vengono abbattute durante le rivoluzioni, dopo vengono conservate e studiate, a futura memoria.
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto