Sdrindulaile che bambinute: finale tutto friulano per Vermiglio
Nel film di Maura Delpero sembra di vivere una storia friulana. E nei titoli di coda appare la ninna nanna più conosciuta di queste terre
Non vincerà magari l'Oscar come miglior film straniero, ma nulla toglie che “Vermiglio” sia un gran bel film. Del resto il riconoscimento unanime di critica e pubblico, culminato con il Leone d'argento a Venezia, l'aveva già evidenziato. La sua programmazione su Sky ne allarga la popolarità ad una platea più vasta e in grado di apprezzare l'opera della regista Maura Delpero. Le recensioni ne hanno già trattato in abbondanza, concordando sui giudizi, spesso andando oltre il semplice plauso, arrivando al termine “capolavoro”.
Dopo averlo visto in televisione devo dire che mi sembrava di vivere una storia friulana. Sarà per i paesaggi o per un gioco di rimando alle vecchie fotografie della vita in Carnia, ai volti scolpiti delle donne, per il periodo storico in cui la vicenda si svolge, tutto mi riportava alle nostre montagne.
Molti hanno fatto riferimento a “L'albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi. Non ho dubbi che se qualche paragone fosse possibile, dovrebbe essere quello con “Gli ultimi” di Turoldo. Anzi no. Ricorda per molti aspetti “Maria Zef” di Vittorio Cottafavi che nel 1981 uscì dalla “clausura” decretata dal Ministero della Cultura, che ne aveva negato il visto, grazie alla nascita di Raitre che produsse il film. Secondo il critico Lou Moulett “un'opera fondamentale per il cinema italiano”.
Si, ma tanto friulano, a partire dai luoghi dove si svolge la tragica vicenda, per gli attori, per la lingua friulana usata dai protagonisti e per i sottotitoli in italiano che accompagnano la proiezione.
E non è forse così anche in Vermiglio, dove la dolcezza delle parole, credo una variante locale del ladino, voglia quasi lenire, fare da controcanto ai drammi di una famiglia, di una comunità.
Preso da queste considerazioni, stavo per perdere quella che forse rappresenta la conferma delle somiglianza di due mondi. Scorrono i titoli di coda, quelli che di solito saltiamo, e ascolto una musica antica e amica che mi sembra di riconoscere. Si tratta di “Sdrindulaile che bambinute” la più conosciuta e amata tra le ninne nanne della nostra terra, ma evidentemente comune a tutto l'arco alpino.
Ecco il testo:
Sdrindulaile, sdrindulaile ché bambinute
che si torni, che si torni a indurmidì.
Jè jevade, jè jevade la biele stele,
son tre oris, son tre oris denànt dì.
Une volte, une volte tu èris biele,
blanche e rosse, blanche e rosse come un fior.
E cumò tu ses patide
consumade, consumade dal dolor.
Non è forse il riassunto più commovente della trama di Vermiglio dove la vita di una famiglia passa attraverso il ricordo di una gioventù ormai sfiorita? Di un destino scritto da sempre?
Un linguaggio intimo, materno di un mondo femminile che oltrepassa confini e valica le montagne come solo una ninna nanna può fare. —
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