Stephy Tang, la diva di Hong Kong che adora “Perfetti sconosciuti”
Stephy Tang, diva hongkonghese di un certo glamour internazionale, passeggia in via Trento a Udine accompagnata da un video improvvisato con il cellulare e le movenze leggiadre sarebbero ben più adatte a una romana via Veneto, ma la ragazza pare felice lo stesso.
Vi immaginate Monica Bellucci che si fa uno short in una via deserta di una cittadina del Nord Est? Ecco, appunto, non ve la immaginate. Nemmeno io.
Eppure Stephy, classe 1983, una cinquantina di film in archivio — «Cinquanta? Dice sorpresa quando durante l’intervista qualcuno glielo ricorda — ex leader di una band, scrittrice, pallavolista ed esperta di fashion design, non pare proprio da meno della nostra icona, per niente. Altro spirito, certo, e meno fronzoli.
È da una ventina d’anni che il Feff proietta pellicole sue, tipo “Merry - Go-Around”, la prima targata 2002, seguendola nelle successive avventure cinematografiche fino alle due proposte di questo festival: “Twelve Days” e “Table For Six”.
L’attrice rivela di avere un debole made in Italy, un film del 2016: “Perfetti sconosciuti”, di Paolo Genovese, forse l’ultimo grande successo del nostro cinema, tralasciando Zalone (che ormai fa incassi non proprio meritati).
«Se penso al cinema italiano — racconta Stephy — mi viene subito in mente quest’opera incredibile, che analizza la nostra società attraverso l’uso del telefonino. Come dicono nel film: la scatola nera della nostra vita. Ricordo che mi innamorai di un remake francese, ma anche in Cina e in Corea "Perfetti sconosciuti” è comparso nelle sale».
Con solo una camicia addosso, che volendo fa anche da minigonna, la Tang si è presentata bellissima e puntuale in sala Fantoni del Giovanni da Udine per una chiacchierata informale soprattutto su “Twelve Days”, una proposta abbastanza cupa sulle relazioni di coppia con uno sguardo bergmaniano, andando a cercare ispirazioni passate della regista Aubrey Lam. «Le donne dietro la cinepresa parlano molto meno degli uomini, ti danno pochi consigli sul personaggio. Punti di vista, ovviamente».
Chissà come funziona il cinema con Stephy: è lui a cercarla o è lei che lo trova? Ammette la prima ipotesi dichiarandosi “attrice passiva”. Confessa pure di vivere con la mamma, di non essere sposata («ho avuto qualche difficoltà a entrare nel ruolo di moglie», svela) e di non diventare pazza per le riunioni di famiglia o di quelle tavolate piuttosto confusionarie.
A occhio e croce la Tang è una ragazza riservata e per nulla invasata come le starlette nostrane che a malapena infilano un congiuntivo giusto.
E come funziona il cinematografo a Hong Kong? Nel senso di set, ecco, non di botteghino. «Devo dire di essere abbastanza libera nell’interpretazione, è invece vietato cambiare i dialoghi».
La pandemia ha dato una bella spallata pure all’ex colonia britannica. Nel momento in cui il mondo ha cominciato a rialzarsi gli hongkonghesi si sono ritrovati più isolati che mai. E già la situazione normale non è rosea. La vita della metropoli è talmente ansiogena che è stata rilevata la più alta percentuale mondiale di giovani suicidi.
Da qui la ricerca della felicità, un docufilm dal titolo “Finding Bliss”, presente al Feff 24, ideato dalla frontwoman di una band, Josie Ho, volata in Islanda alla ricerca dell’origine del benessere. Che sia il caso di emularla?
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