Teresio Olivelli, il “beato” martire della Resistenza in Friuli

UDINE. «Mio ottimo signor Querin, col dispiacere di non avervi potuto rivedere aumenta in me il senso di vivissima gratitudine per la generosità con cui mi avete accolto pellegrino d’Italia.
Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero nudo e mi avete vestito, ero in fuga e mi avete accolto: in giorni più felici spero di rendervene testimonianza».
Sono molte le tracce che il partigiano Teresio Olivelli, martire della Resistenza, innalzato agli onori dell’altare da Papa Francesco, che lo ha nominato “beato” il 3 febbraio, ha lasciato in Friuli.
Nel novembre 1943 scriveva cristiane parole ad Aristide Querin, che a Pontebba lo aveva accolto nella sua casa,dopo che il coraggioso tenente della divisione Tridentina era riuscito, con otto tentativi di fuga dai campi di prigionia, a rientrare in patria.
Morto a soli 29 anni nel campo di concentramento di Hersbruck, Olivelli ha vissuto al servizio del prossimo con limpida e straordinaria vocazione cristiana.
Nato a Bellagio di Como nel 1916 frequenta il liceo a Vigevano, sente forte la presenza dello zio Rocco sacerdote e con ostinata fermezza affronta la maturità a Pavia con distintivo dell’Azione Cattolica al bavero a sfidare i fascisti.
Studente di legge frequenta la sezione della Fuci di Pavia. È ammesso al collegio Arcangelo Ghisleri di cui diventerà giovanissimo rettore durante la guerra. Cerca di cambiare la cultura fascista permeandola di cristianesimo, così nei confronti delle leggi razziali.
In una commossa biografia scritta da Alberto Caracciolo, compagno di studi, generoso docente di filosofia della religione a Genova, si legge: «Per lui il problema dello Stato era il problema del popolo e il popolo per lui erano i poveri».
Parte soldato il 20 febbario del 1941 prima Gorizia e la caserma di Udine al terzo Reggimento artiglieria alpina della Divisione Julia. Non vuole i privilegi degli ufficiali, dorme con la truppa. Fa domanda di partire volontario per la Russia,passa alla Tridentina.
Nel Natale del ‘42 in assenza del cappellano legge ai soldati il Vangelo e recita il rosario. Affronta la ritirata mai dimenticando malati e feriti.
Dopo la fuoriuscita dalla sacca di Nikolajewska «mette a repentaglio la propria vita -racconta un suo alpino - con fervore di carità e di fede sempre crescenti. Era stato non eroe delle battaglie, ma della carità».
Il 19 marzo del ’43 arriva a Tarvisio, poi a Tarcento. La sua avversione al fascismo cresce. Si fa obbligo morale di scrivere alle madri degli alpini non tornati.
Dopo l’8 settembre da Monfacone viene inviato a Vipiteno.Vuole condividere le sofferenze dei soldati, del popolo costretto a subire una guerra non voluta. Catturato dai nazisti scapperà verso il Friuli. Giunge a casa Querin e poi a Udine ospite dei farmacisti Bianca e Cirillo Ariis.
Esce di casa presto per andare a messa, distribuisce viveri ai poveri che incontra, scrive lettere firmandosi Teresio Ariis. Rimane a Udine due settimane: il vangelo e il rosario sul comodino.
Nella primavera del ’44 è a Milano aderisce al movimento antifascista Fiamme Verdi e scrive una preghiera dedicata al “Ribelle”: «Signore che tra gli uomini drizzasti la tua croce … che fosti respinto, vituperato, tradito,crocefisso, nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci non lasciarci piegare... ascolta la preghiera di noi Ribelli per amore».
Il 27 aprile 1944 fu catturato a Milano in piazza San Babila,rifiutò l’intervento dello zio prete presso i nazisti. Fossoli, Dachau. Nel campo di sterminio sulla casacca aveva il triangolo rosso del politico e un disco rosso cerchiato di bianco a dire “pericoloso”.
Conosceva bene il tedesco, il suo coraggio in aiuto ai perseguitati fu eroico. Per difendere un ebreo magiaro dalla percosse fu colpito a calci nello stomaco e seviziato. Morì dopo avere donato i suoi vestiti e profetizzato: «Mi auguro solo che le nostre sofferenze contribuiscano al trionfo della giustizia e della pace».
Era il gennaio 1945. Ad Aristide Querin aveva restituito 300 lire che gli aveva prestato: «Cento lire datele agli operai perché bevano un bicchiere alla fortunosa fuga e alla salvezza dell’Italia».
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