Dal Tomadini alla Grande Mela: il pianista udinese Filippi incanta New York
L’artista 32enne ha appena pubblicato un nuovo dischi inciso a Cavalicco: «Il jazz la mia vera vocazione, devo ringraziare il mio maestro Glauco Venier
Quando da bimbo inquadri con chiarezza ciò che farai appena si allungheranno le braghe, probabilmente ti andrà bene. Il pianista, poi, non è un mestiere imposto e né tantomeno una seconda scelta: le mani sulla tastiera ci devono andare da sole.
Se Emanuele Filippi, ora trentaduenne, non avesse convinto il destino ad assecondarlo in una sua scelta naturale, adesso non vivrebbe fra New York e Parigi, non inciderebbe dischi (a proposito è appena uscito uno nuovo) e nessuno lo chiamerebbe a fare concerti nei locali alla moda della Grande Mela.
«Non avrei voluto fare altro – ammette il musicista e compositore udinese costretto a far le valigie dal Friuli per il solito grande sogno che si palesa davanti a ogni artista – e, intanto, scelsi la via più ovvia, ovvero frequentare il conservatorio Tomadini. Dieci anni di studi per poi capire la mia vera vocazione: il jazz. E di questo devo ringraziare il mio maestro Glauco Venier».
A quel punto si sentiva deciso a inseguire sensazioni più forti?
«Certo, a Udine avevo esaurito il da farsi diciamo preparatorio e cominciai a relazionarmi con i concorsi in giro per l’Italia. E alcuni li vinsi pure. Nel successivo step volai a New York per frequentare il “City College”, esperienze decisive che ti forgiano se è questo quello che vuoi affrontare nella vita, ovvero una tastiera bianconera sotto il naso e un pubblico che attentamente ascolta davanti. Ora sono nuovamente sulle rive dell’Hudson perché è un posto meraviglioso da vivere se fai il jazz».
Ci azzecca poco con la parte artistica della faccenda, ma quanto costa vivere fra i grattacieli americani?
«Una cifra. Una stanza la paghi anche 1200 dollari. Se può consolare, però, gli stipendi sono sostanziosi. E con la musica guadagni bene».
Torniamo alla purezza del pentagramma. Il biennio newyorkese cosa ha aggiunto?
«Un’infinità di sapere. Fra l’altro stare al fianco di Fred Hersh, uno dei più acclamati solisti mondiali, be’, ti porta veramente lassù. Mi sento di nominare pure l’immenso Keith Jarrett, se vogliamo parlare degli dei pagani, purtroppo il maestro non sta bene. Nemmeno dirlo, la mia corsa fu interrotta dal Covid e tornai a base Italia. A quel punto non avendo più la possibilità immediata di vivere in America scelsi Parigi. Appena agguantai l’occasione tornai a New York: c’è un’energia unica, inutile. Ora con l’Artist Visa in tasca posso stare altre tre anni».
Da poco è uscito, si diceva, il nuovo disco che lei decise di registrare da Stefano Amerio nella friulana Cavalicco. Possiamo anticipare qualche nota?
«Intanto vorrei ricordare il produttore artistico che è Glauco Venier, il quale — fra l’altro — ha ricoperto un ruolo fondamentale nella visione dell’opera. Il titolo è “Carousel”. È il quarto registrato in studio e ci tengo a farne sempre di nuovi perché è proprio in queste occasioni che liberi la tua vera essenza senza scendere a compromessi. Fa strano tornare a Udine per comporre un disco con tutti gli studi newyorchesi importanti, capisco, ma Amerio per me è casa e l’importanza di questo fattore sentimentale è decisivo. Se poi vogliamo metterla giù romantica, è il suono del Friuli».
C’è un luogo rappresentativo dove si ritrovano i jazzisti a N. Y. ?
«Certamente, si chiama “Ornithology”, sta a Brooklyn, ed è punto di riferimento per chi si esprime coi suoni di un certo tipo. Decenni fa c’era “Smalls Jazz Club”, l’ombelico del mondo. Ora è un luogo di culto».
E il locale dove suona Woody Allen?
«Non ci sono mai stato. Ma da quanto ne so il regista si esibisce raramente e non più ogni lunedì come un tempo. Un biglietto costava trecento euro. Se fossi stato allora in America li avrei spesi volentieri».
Altri guru incontrati lungo il cammino?
«Uno decisamente sì ed è Enrico Rava, che incrociai anni fa a Siena jazz e col quale sono rimasto in costante relazione. Uno degli ultimi concerti con lui risale a un paio di settimane fa».
Lei è un musicista errante?
«Al momento sì, giro parecchio avendo varie piste su cui atterrare. Anche col Messico ho un rapporto musicalmente d’amore, grazie a una collaborazione con Giovanni Cigui un sassofonista triestino col quale ho sviluppato molti progetti. Di posti dove ritorno volentieri ce ne sono parecchi».
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