Vent'anni senza Vittorio Gassman: scelse lo Stabile Fvg per il suo ultimo recital a teatro

Oggi ricorrono i 20 anni della morte del celebre attore. Nel 1996 con Anima e corpo fu in scena a Trieste e a Udine

Aveva scelto Lo Stabile del Friuli Venezia Giulia Vittorio Gassman, di cui cade oggi il ventennale della morte, per il suo ritorno alle scene dopo il lungo periodo di depressione che l’aveva colpito con insolita virulenza, lui che per tutti era l’uomo forte deciso spavaldo e spaccone capace di attraversare i perigli più insidiosi della vita. O almeno così ce lo aveva fatto immaginare il cinema.

Era il 1996 e scelse il teatro regionale, forse perché periferico, lontano dai riflettori di Roma e Milano che temeva, dopo che un suo spettacolo, “Camper” di due anni prima era stato stroncato dai critici. “Anima e corpo talk show d’addio” , questo il progetto e il titolo dello spettacolo che debuttò al Rossetti di Trieste nell’ottobre del 1996 e fu replicato subito dopo per diverse sere al Palamostre di Udine, di cui apprezzò l’entusiasmo e la preparazione del pubblico e il dopo teatro che Rodolfo Castiglione organizzò al ristorante Vitello d’oro, dove fu caldamente festeggiato. Un recital, affiancato da alcuni fedelissimi collaboratori e amici di lunga data come Luciano Lucignani e Attilio Cucari e giovani come Marco Alotto, Emanuele Salce e Antonietta Capriglione. Una piccola tribù che lo faceva sentire al sicuro, che sbarcò a Ronchi in un pomeriggio assolato di settembre e che a chi scrive toccò l’onore di accogliere e accompagnare in teatro.

Avevo un po’ di timore, che però spari non appena il grande attore mi strinse la mano e mi elesse a una sorta di assistente e confidente. Soprattutto per quanto riguardava il copione di cui era certo ma non certissimo: un collage di brani che andavano da Sofocle a Shakespeare, da Brecht a Sepulveda che scrisse un pezzo proprio per lui e che fu a Trieste in occasione della prima. E poi Pasolini, il cui “Affabulazione” nel 1985 fu proprio Gassman a mettere in scena per primo, e Dante e Turoldo e Saba, e Kavafis...in una scorribanda fra autori amati, fra quel sacro e profano richiamato nel titolo come anima e corpo, dove anima si nutriva, cito le sue note di regia “delle parole di Sofocle, come la disperata consapevolezza di Edipo, come i versi di Dante e quelli religiosi di Turoldo... E corpo delle lucide riflessioni di Kafka (“Una relazione dall’Accademia”), della sublime gigioneria di Kean (cui si sentiva molto affine per quell’affrontare la scena tra ribalderia dedizione e forsennata precisione) o del Sepulveda del magmatico della natura nel “Silenzio del mistero” .

Un recital, scaramanticamente definito d’addio, “ultimo mio soggiorno in palcoscenico, cito ancora, da replicare per tanti anni... Un po’ come succedeva ai grandi attori del passato, a Kean, che ha dato una quindicina di addii prima di togliersi definitivamente di torno”, Non l’ha replicato per quindici anni, ma per un paio sì, visto che se ne è andato nel 2000 dopo solo tre anni. E ricordo come vivesse con emozione da neofita i debutti, in particolare al Sistina di Roma o al Carcano di Milano, dove per scacciare l’ansia mi aveva voluto coinvolgere nell’innocente trasgressione, (ma non tanto, visto che soffriva di enfisema polmonare e nel camerino c’era sempre per sicurezza una bombola d’ossigeno), del fumare assieme un’ultima sigaretta, “tanto nessuno ci vede” , ma fu solo un tiro.

Oppure al debutto al Rossetti, dove sapeva sarebbe arrivato per recensirlo sul Corriere della sera il grande critico e poeta Giovanni Raboni, che aveva stroncato duramente “Camper” e di cui fanciullescamente per ingraziarselo voleva recitare una poesia. Allora gli suggerii di interpretare un componimento di Patrizia Valduga, che Era si la compagna di Raboni, il che non avrebbe guastato, ma non sarebbe stato letto come sfacciata piaggeria visto che Valduga è una grande poetessa cantrice appassionata e libera dell’amore in tutte le sue sfaccettature. Accettò e la sua lettura fu così intensa ed emozionata che alla fine Valduga venne in camerino, lo ringraziò con sincero trasporto e si ristabilì così l’antica stima e amicizia anche con Raboni. E di questo Vittorio mi fu grato e io a lui perché mi aveva dato l’opportunità di conoscere, attraverso molti racconti e aneddoti che mi faceva in camerino prima degli spettacoli, uno dei periodi a più fertili e felici dello spettacolo italiano di cui fu senza dubbio alcuno un vero e insuperato mattatore. —
 

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto