Vittorio Veneto, la contro-Caporetto: gli austriaci alla fame, fu vera gloria?

Cent’anni fa l’offensiva italiana sul Grappa e sul Piave mentre l’impero implodeva Il 28 ottobre il crollo: gli imperiali girarono le spalle al fronte. La retorica del fascismo

Andrea Zannini

Cento anni fa, il 24 ottobre 1918, nell’anniversario della cocente sconfitta di Caporetto, partiva dal Piave e dal Grappa la riscossa dell’esercito italiano, la battaglia di Vittorio Veneto. Fu vera gloria?

La riconquista delle province venete e friulane occupate dagli asburgici nel 1917 godette subito di una pessima fama. «Se volessi esprimermi paradossalmente, direi che Caporetto è stata una vittoria, e Vittorio Veneto una sconfitta per l’Italia». Così, pochi mesi dopo quei fatti, sulla “Voce”, il capitano del regio esercito Giuseppe Prezzolini, che spiegava: «Ci si fa grandi resistendo a una sventura ed espiando le proprie colpe, e si diventa invece piccoli gonfiandosi con le menzogne e facendo risorgere i cattivi istinti per il fatto di vincere».

In realtà l’esito della battaglia non fu per nulla scontato. Pochi mesi prima, nel giugno 1918, gli austroungarici avevano lanciato una violenta offensiva, la cosiddetta “battaglia del solstizio”, con l’obiettivo di sfondare la linea Piave-Monte Grappa, sulla quale erano stati bloccati dopo Caporetto, e dilagare nella pianura veneta. L’esercito italiano, riorganizzato da Armando Diaz, era riuscito a fermarli, con l’aiuto degli anglo-francesi e dalla piena del fiume («Il Piave mormorò: non passa lo straniero»). Ma gli imperi centrali sembravano ben lungi dal capitolare: erano al massimo della loro espansione territoriale e l’apporto degli Usa non appariva ancora determinante. I piani dell’Intesa prevedevano che un altro inverno sarebbe passato in trincea e che la guerra si sarebbe risolta nel 1919.

Poi, d’improvviso, nel settembre 1918, i segni di cedimento degli austro-tedeschi si moltiplicarono. L’alleato bulgaro si ritirò dal conflitto mentre a ovest le forze occidentali cominciarono a infliggere perdite pesanti. All’interno dell’impero asburgico, dove la situazione economica era sempre più drammatica, le proteste per l’indipendenza delle nazionalità ceca, polacca e slovena divennero insopprimibili. Diaz e il governo italiano realizzarono che senza conquiste territoriali sarebbe stato inutile sedersi al tavolo della pace.

Così il 24 ottobre partì l’offensiva italiana, sul Grappa e sul Piave, finalizzata a forare con un cuneo la linea austriaca a puntare su Vittorio (non ancora “Veneto”). Un luogo pressoché sconosciuto ai più, ma anche allo stesso Capo di Stato maggiore Diaz, che in un episodio famoso, di fronte a un’enorme carta geografica del fronte, aveva esclamato: “Addò sta’sto cazz’e Vittorio? ” (fonte Ferruccio Parri).

Eroica, se è ancora possibile usare oggi quest’aggettivo, la resistenza delle prime linee austriache sul Grappa. Considerando soprattutto lo stato di prostrazione fisica e alimentare dei resti di quel grande esercito che aveva disceso le nostre valli con orgogliosa sicurezza. Per quattro giorni, dunque, fu vera battaglia, senza che gli austro-ungarici dessero segni di cedimento, come avrebbe scritto nelle sue memorie il generale Giardino che comandava la quarta armata sul Grappa.

Poi, tra 28 e 29 ottobre, il crollo. Non tanto delle prime linee, quanto delle seconde e terze linee austriache, che cominciarono a rifiutarsi di portarsi sul fronte. D’improvviso, come a Caporetto tra gli italiani sconfitti era serpeggiato il miraggio della fine della guerra e centinaia di soldati avevano semplicemente volto le spalle al fronte, gli austriaci cessarono di combattere, abbandonarono le postazioni, si tolsero le mostrine e si misero in marcia verso casa. Attoniti, gli italiani impiegarono due giorni a rompere le poche residue resistenze. Lo scontro si trasformò nell’inseguimento di un fiume di soldati in rotta verso i confini che si lasciavano catturare con la speranza di un piatto di minestra. La guerra si chiudeva con accenni di farsa: Piero Calamandrei, il futuro padre della Costituzione, entrava per primo, indisturbato, a Trento con un sidecar sottratto al suo comando.

Iniziavano i bilanci. “Grande vittoria strategica di stampo napoleonico” nella cultura militare italiana, Vittorio Veneto continua a essere ridicolizzata dalla storiografia internazionale, per la quale è difficile riconoscere che una guerra degli italiani possa concludersi con una brillante vittoria militare: «Gli italiani approfittarono della confusione per fare una retata di centinaia di migliaia di soldati inermi negli ultimi giorni di ottobre. La chiamarono la battaglia di Vittorio Veneto», ha scritto ancora pochi anni fa Norman Stone, uno dei più quotati storici inglesi.

Ma a Vittorio Veneto iniziava anche l’utilizzazione di Vittorio Veneto: la santificazione della tragedia, la strumentalizzazione retorica dei milioni di europei morti per la follia nazionalistica. Vera o falsa che sia, la frase con la quale Mussolini si sarebbe presentato al re all’indomani della marcia su Roma, “Sire, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”, era il programma della gigantesca operazione di appropriazione della Grande Guerra che il regime fascista si apprestava a fare. –



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