Volcic, il ragazzo che attraversò cinque regimi per raccontare la Storia oltre la cortina di ferro
Esce per Sellerio il memoir “A cavallo del muro. I miei giorni nell’Europa dell’Est” dello storico corrispondente Rai

Tra il 1956, quando fu assunto dalla Rai di Trieste, ed il 1993 ormai in veste di corrispondente estero, in particolare d’inviato in Unione Sovietica, il volto di Demetrio Volcic è stato per anni una presenza familiare sui teleschermi italiani.
Voce tenorile, stile da gentleman, un modo di porgere le notizie caratterizzato da un’ombra d’ironico “understatement”, Volcic ci ha raccontato per quarant’anni cosa accadeva oltre la cortina di ferro, fino a spiegare la “perestrojka”, la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico.
Dimitrij Volčič era nato a Lubiana, il 22 novembre del 1931 ed è morto a Gorizia il 5 dicembre 2021, dove si era ritirato dopo esser passato alla direzione del TG1 nel 1993 e dopo aver insegnato Dottrine politiche e Politica internazionale all’Università di Trieste.
L’inconfondibile voce di Demetrio Volcic seguita a risuonare ora nel bel libro di memorie “A cavallo del muro. I miei giorni nell’Europa dell’Est” curato da Paolo Possamai e da Livio Semolič per Sellerio Editore (pagg. 184, euro 18). Il libro si apre con la prefazione di Jas Gawronski e si chiude con le note di due compagni del Volcic uomo politico: Romano Prodi e Walter Veltroni.

Nelle liste del Pd Volcic fu infatti Senatore della Repubblica e membro del Parlamento europeo. Questo’memoir’ è il risultato di un adattamento dei testi che Volcic pubblicò nel 2020 in sloveno per i tipi dell’Editoriale Stampa Triestina, e ripercorrono le fasi salienti della sua carriera giornalistica.
Con l’humor che lo contraddistingue, il libro s’apre con la lista di una serie di scoop mancati, spesso relativi a colpi di mano organizzati in piena estate, attorno a ferragosto, o ancora meglio durante un fine settimana.
“Il segreto dei miei buchi – confessa Volcic – è che tutte le volte che vado in vacanza, immancabilmente succede qualcosa. Il 18 agosto 1968 lasciai Praga, quarantott’ore prima che arrivassero gli invasori sovietici. ” In realtà la lista degli scoop mancati è molto breve e il giornalista passa a raccontare le grandi pagine della storia del XX° Secolo di cui è stato testimone oculare.
A partire dai suoi ricordi dell’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956. Per ricostruire i fatti della sollevazione armata, di spirito antisovietico, divampata nell’allora Ungheria socialista il 23 ottobre e soffocata l’11 novembre 1956, Volcic ricorre ad un espediente letterario, ovvero ai racconti di László Rajk, il “figlioccio” di Janos Kádár, fiumano, presidente dell’Ungheria dal 1956 al 1988.
Il secondo capitolo è dedicato agli anni che precedettero e seguirono la Primavera di Praga del 1968. Qui brilla la penna del grande scrittore, capace di evocare luoghi e atmosfere lontane: “C’era un odore diffuso di benzina scadente, di cavolo, un odore di miseria. I tetti crollavano e cedevano i soffitti. I muri maestri dei palazzi restavano in piedi grazie alle stampelle di legno.
Più che nel socialismo reale si abitava in un neorealismo abbastanza straccione. Si scivolava su ponti provvisori di legno verso il destino che secondo i giornali locali non poteva che esser glorioso. Nelle vetrine erano esposte parole d’ordine al posto delle merci, ma attraverso la sporcizia non si vedeva granché. ” Il quella Praga “poeticamente sciatta” si consumano negli anni una serie di ingerenze sovietiche che culminano con la repressione dei moti del’68.
Volcic descrive con pathos ed empatia le disgrazie di Alexander Dubček, fino alla sua misteriosa morte (una tra le tante) avvenuta nel 1992 a seguito di un non mai chiarito incidente stradale. Volcic scrive poi di Michail Gorbačëv, di Boris Nikolaevič El’cin e di Vladimir Vladimirovič Putin, ma poiché su quest’ultimo le analisi si fermano al 2020 lo sforzo di guardare lontano si traduce in una certa miopia sugli sviluppi attuali della politica estera russa. Un tono decisamente più intimista è quello che risuona nel terzo capitolo di questo’appassionante libro, che Volcic ha intitolato “Tra Lubiana e Trieste, ragazzo di due mondi” e in cui racconta la sua giovinezza passata attraverso “cinque regimi” nell’arco di soli cinque anni, un record.
“Cambiava tutto – ricorda Volcic – così come nella casa in cui abitavo che cambiava indirizzo, Stato e lingua e gli abitanti erano sempre gli stessi. Prima si mandava la posta in via Dvořák, Jugoslavia, poi in via Puccini, Italia, poi ancora in via Puccini, ma per non sbagliare si aggiungeva Deutschland”. Dimitrij Volčič era nato da famiglia triestina di lingua slovena, che sotto il fascismo non trovandosi bene né a Trieste né a Gorizia s’era trasferita a Lubiana dove c’era almeno la possibilità di parlare la lingua che si voleva.
A guerra finita la famiglia tornò a Trieste, dove Mitja completò gli studi e iniziò a lavorare come giornalista per la Rai, ma di quel mondo che aveva ancora il sapore della Mitteleuropa austroungarica a Demetrio Volcic, restò per sempre la nostalgia, tanto che quando potè si trasferì a Vienna.
“La nostalgia – annota Volcic – non è un tentativo regressivo, ma un atteggiamento normale, con cui un individuo si volge verso frammenti di passato; provandola si esercita la pietà nei confronti della propria vita”
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