Walter Murch, da Apocalypse Now a Pordenone Docs Fest: «L’emozione in moviola»

il celebre montatore statunitense tre volte Premio Oscar protagonista della rassegna nella giornata conclusiva di domenica 6 aprile: «Da Lucas e da Coppola ho imparato molto»

Oscar D'Agostino
Walter Murch, cineasta statunitense, montatore di alcuni capolavori del cinema come Apocalypse Now e Il Padrino
Walter Murch, cineasta statunitense, montatore di alcuni capolavori del cinema come Apocalypse Now e Il Padrino

«Il montaggio non è mettere assieme, ma è la scoperta di un percorso». Parola di Walter Murch, cineasta statunitense, montatore di alcuni capolavori della storia del cinema (da Apocalypse Now a Il Padrino). Il tre volte Premio Oscar sarà protagonista oggi alle 21 di un incontro al Pordenone Docs Fest, con la proiezione del documentario Her Name Was Moviola, che si chiude domenica 6 aprile con la cerimonia delle premiazioni, il cineconcerto e tanti altri film, tra cui The Bibi Files (alle 18).

Ha iniziato a lavorare negli anni’60, quando la tecnologia digitale era ancora lontana. Quanto era manuale il montaggio a quell’epoca e qual era la sua moviola preferita?

«Ho montato per sei decenni: tre di questi manuali/meccanici, tre digitali. Rispetto al digitale, il montaggio meccanico era come fare il fabbro: rumoroso, ripetitivo, emozionante, al limite del caos. Ho usato principalmente la Kem, una macchina tedesca. Anche se nel 1977 ho montato “Julia” di Fred Zinnemann su una Moviola. E ho imparato a montare su una Moviola a scuola di cinema».

Nel corso della sua carriera di 60 anni, ha assistito al passaggio dal montaggio analogico a quello digitale. Com’è stato il cambiamento? I vantaggi ora superano gli svantaggi?

«I vantaggi hanno da tempo superato gli svantaggi. Ed è meglio per l’ambiente e la salute (con l’analogico c’erano molti prodotti chimici e plastica tossici). Ma sono felice di aver vissuto il montaggio meccanico — era come lavorare su una barca a vela — una tecnologia pericolosa e arcaica con le proprie tradizioni e leggende. Spesso ci tagliavamo, spargendo sangue sul film».

Nel libro “In a Blink of an Eye” (la trascrizione di un seminario a Sydney, Australia, nel 1989), spiega i criteri per fare un taglio che funzioni. Quali sono?

«L’emozione, la storia, il ritmo sono i più importanti, in quest’ordine. Deve essere emozionale, altrimenti perdi il pubblico. La storia deve essere convincente, come un’esperienza di deja-vu prolungata: non puoi immaginare cosa succederà dopo, ma quando accade, sembra inevitabile. E il ritmo del montaggio deve essere come la musica, ma quale tipo di musica? Non importa: jazz, rock’n’roll, classica, barocca, ecc. Ho scritto un nuovo libro sul cinema, “Suddenly Something Clicked” , che sarà pubblicato l’8 maggio».

Tra i film famosi sui quali ha lavorato c’è “Apocalypse Now” , per il quale ha vinto un Oscar per il suono. Com’è stata quell’esperienza?

«Trasformativa per tutti coloro che hanno lavorato al film. Trasformativa per l’America: è stata la prima guerra che gli Stati Uniti hanno perso, e stiamo ancora facendo i conti con questo. Il lavoro di camera di Vittorio era sublime, e spero che i nostri suoni abbiano integrato e arricchito le sue immagini. È stato anche il film che ha stabilito il suono 5.1, che poi è diventato lo standard per il cinema».

All’inizio della sua carriera, ha cosceneggiato “THX 1138”, il primo lungometraggio di George Lucas, che è diventato un cult. Come è andata?

«È stato un piacere lavorare con George sulla storia e sulla sceneggiatura. Matthew Robbins ed io avevamo sviluppato la storia per un progetto di film per studenti che volevamo fare, ma ci siamo interessati a qualcos’altro, e George ci ha chiesto se poteva adattarla per il suo progetto studentesco e noi gli abbiamo detto: vai pure. Poi più tardi, George ed io abbiamo lavorato insieme per espanderla in un lungometraggio. Ho anche fatto il design del suono per “THX”».

Ha lavorato con molti registi famosi, da Coppola a Lucas. Com’era il suo rapporto come montatore con i registi? C’è qualcuno in particolare con cui ha avuto la migliore sinergia artistica e professionale?

«Ogni relazione montatore/regista è come un matrimonio, e ti adatti ai metodi e alle personalità dell’altro. Mi piace lavorare con diversi registi, per imparare da loro. Coppola e Minghella sono quelli con cui ho lavorato più spesso. Entrambi sono italiani, quindi qualcosa in me risponde alla sensibilità italiana sulla vita e sul cinema».

Ha dedicato la sua vita al montaggio e al design del suono, ma ha anche diretto un film, “Return to Oz” . Come è nato un progetto così particolare e come l’ha vissuto come regista?

«Il film si chiamava “Return to Oz” . Da giovane leggevo i libri su cui abbiamo basato il film. In realtà, avevo sette anni e sono stati i primi grandi libri che abbia mai letto — erano fantastici e immaginativi e hanno senza dubbio avuto una grande influenza sulla mia personalità in sviluppo. È stato meraviglioso riuscire a trasformarli in un lungometraggio. Molto complicato, ma meraviglioso».

Una curiosità: ha tradotto e pubblicato un gran numero di opere dello scrittore, giornalista e poeta italiano Curzio Malaparte. Perché questo interesse per un autore italiano?

«Ho studiato all’Università per Stranieri di Perugia nel 1963, ma non ho scoperto Malaparte fino a vent’anni dopo, nel 1986. Leggere il suo lavoro è stato come cadere in un quadro di Bosch e Chagall. Con un po’di Proust e del Diavolo. Questa combinazione mi ha affascinato molto nasce da un idealismo innato che viene brutalizzato dall’esistenza. Mentiva sulla sua età e si arruolò nell’esercito nel 1914 per combattere contro i tedeschi (suo padre era tedesco, e il suo vero nome era Kurt Suckert). Lo chiamavano il camaleonte perché prima era fascista, poi comunista, poi (forse) cattolico. Poi ho scoperto che gran parte del suo lavoro non era stato tradotto in inglese, quindi mi sono immerso e ho lottato con una dozzina delle sue opere più brevi, pubblicate nel 2012 con il titolo “The Bird That Swallowed Its Cage».

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