Elezioni Usa 2024. Un’America meno democratica e i tiranni del mondo fanno festa

I temi che spingono Donald Trump, vicino alla rielezione alla Casa Bianca, ci fanno riflettere anche sul futuro rapporto con l’Europa

Peppino Ortoleva
Festa a Palm Beach, quartiere generale di Donald Trump
Festa a Palm Beach, quartiere generale di Donald Trump

La vittoria di Donald Trump e del partito repubblicano è più netta di quanto ci si attendesse. Questo non toglie che la società statunitense, già fortemente divisa da anni, si dimostri comunque spaccata in due. A vedere dall’Europa si può tendere a parlare in termini di una classica contrapposizione tra destra (repubblicana) e sinistra (democratica) e certo questa lettura è avallata da diversi elementi, prima di tutto i diritti civili: mentre i democratici si presentano come coloro che intendono preservare il diritto all’aborto molti stati repubblicani hanno introdotto in materia legislazioni punitive, addirittura feroci, anche se Trump ha cercato di mantenersi più vago, cercando di evitare di perdere troppi voti femminili ma senza sconfessare i suoi sostenitori.

Il tema che è veramente al centro della divisione della società americana è piuttosto un altro: la fiducia nella democrazia. L’ex-presidente che sta tornando al potere non nasconde la sua intenzione di modificare radicalmente le regole del gioco. Sull’immigrazione ora ci tiene a precisare che gli USA restano aperti agli ingressi legali ma ha promesso la deportazione in massa di oltre dieci milioni di irregolari: una misura che se attuata comporterebbe il rischio di un vero e proprio stato di polizia.

Su altri temi ha agitato minacce confuse di “dittatura” ma quello che è più da temere sono i progetti ben più definiti elaborati da diversi gruppi per attuarli all’ombra della sua presidenza: piani miranti a imporre un controllo assoluto, e potenzialmente irreversibile, sullo stato federale. Una parte degli elettori di Trump vota repubblicano per tradizione, una parte per protesta contro i “fallimenti” (più percepiti che reali) dell’amministrazione Biden e perché poco convinti dalla candidatura Harris che dopo un buon avvio ha perso mordente anche per l’incertezza su alcuni temi chiave, ma molti si sono schierati decisamente in favore di un “uomo forte” e (nella più antica democrazia del pianeta) per una riduzione del livello di democraticità.

A che cosa si deve questa tendenza? Un primo motivo è la globalizzazione dell’economia, che è avvertita come una minaccia al benessere e al futuro di molte famiglie, tipicamente quelle dell’America delle campagne e delle piccole città, mentre la popolazione delle metropoli che in un’economia planetaria è già di fatto ambientata non casualmente vota in prevalenza democratico.

Trump è sempre stato fortemente isolazionista, per lui la “grandezza” degli USA si esalta anche disinvestendo dai rapporti con il resto dell’occidente, e promettendo barriere doganali prima di tutto contro la Cina. Più pesante ancora è un altro problema: le crescenti diseguaglianze sociali, visibili anche in molte zone degli USA sotto forma di un’impressionante quantità di homeless, di persone private di una casa. Questo porta moltissimi americani a vedere la democrazia come un inganno, dove non solo la parità ma quella stessa “eguaglianza delle opportunità” che era stata a lungo la bandiera della società statunitense appaiono sempre meno credibili. Per quanto possa sembrare paradossale, molti reagiscono non votando per più eguaglianza ma dando per scontato che nulla si possa cambiare in questo stato di cose, e schierandosi proprio con gli oligarchi più demagogici, come Musk e lo stesso Trump: in un paese dove a contare sono i miliardari, appoggiamo i “nostri” miliardari.

Trump era il candidato di un partito mondiale dell’anti-democrazia, o delle “democrazie illiberali” per usare l’espressione contraddittoria lanciata da Orbàn: ha l’appoggio di Putin, di Netanyahu, di Salvini, dello stesso leader ungherese, che puntano ad allearsi con un’America che è sempre il punto di riferimento del pianeta ma con sempre minore autorevolezza. La tendenza mondiale verso le autocrazie ha segnato un altro punto a suo favore. Su una promessa di Trump è invece lecito nutrire forti dubbi: che porti più pace. A meno che intenda per “pace” darla vinta alla Russia, all’ala più violenta di Israele, e agli altri dittatori aggressivi che stanno ora festeggiando.

Ma c’è più pesante ancora il problema delle crescenti diseguaglianze sociali, visibile anche in molte zone degli USA sotto forma di un’impressionante quantità di homeless, di persone private di una casa. Questo porta moltissimi americani a vedere la democrazia come un inganno, dove non solo la parità ma quella stessa “eguaglianza delle opportunità” che era stata a lungo la bandiera della società statunitense appaiono sempre meno credibili. Può sembrare paradossale, ma molti reagiscono non votando per più democrazia ma dando per scontato che nulla si possa cambiare in questo stato di cose, e schierandosi proprio con gli oligarchi più demagogici, come Musk e lo stesso Trump: in un paese dove a contare sono i miliardari, votiamo per i “nostri” miliardari.

Del resto non è un caso che Trump sia il candidato di un partito mondiale dell’anti-democrazia, o delle “democrazie illiberali” per usare un’espressione contraddittoria lanciata da Orbàn: ha l’appoggio di Putin, di Netanyahu, dello stesso leader ungheresi, che puntano ad allearsi con un’America che è sempre il punto di riferimento del pianeta ma con sempre minore autorevolezza.

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